8. Saresti dovuta morire tu

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«Ehi, che cosa ti avevo detto? Prima lo studio, e poi il resto» rimproverai Dylan, facendo fallire il suo tentativo di baciarmi, appoggiandogli l'indice sulle labbra e allontanandolo dal mio viso.

Dylan sbuffò: «Se avessi saputo che saresti stata un'insegnante così intransigente, non ti avrei mai chiesto di farmi da tutor».

«Non sarei così severa, se tu non ti distraessi di continuo» gli feci notare.

«È impossibile rimanere concentrati quando ti ho così vicina.»

«Ah, quindi sarebbe colpa mia?» domandai, avvicinandomi nuovamente a lui.

«Diciamo che se essere bellissima fosse un crimine, allora meriteresti senza ombra di dubbio la più alta delle pene.»

Avvampai e subito mi si formò un sorriso in volto. Sebbene una parte di me interpretò in senso pessimistico le sue parole (la più alta delle pene la otterrò di certo, ma la condanna sarà ben diversa, pensai), il mio fu comunque un sorriso autentico, spontaneo, senza forzature. Mi avvicinai quel poco che bastava affinché potessi toccare le sue labbra con le mie, ma lui, sorprendentemente, si allontanò: «Ehi, frena, la regola vale per entrambi. Prima lo studio e poi il resto, ricordi?».

Alzai gli occhi al cielo. «D'accordo, allora continuiamo. Per le quattro voglio aver finito, sappilo» dissi.

«A me va benissimo. Anzi, prima finiamo, e prima posso riscuotere il mio premio» rispose, dando uno sguardo malizioso alle mie labbra.

Sorrisi ancora, e Dylan sembrò stupirsi di quella mia improvvisa ilarità. «Com'è che da quando sei tornata in mensa, sei tornata magicamente di buonumore? Che è successo con la preside?»

Mi strinsi nelle spalle. «Niente di che, ha accettato le mie scuse e poi ha detto che cercherà di scoprire chi è il responsabile di quel volantino.»

«Tutto qui? È per questo che sei così felice?»

«Sì, perché so di aver fatto la cosa giusta.»

Senza chiedere ulteriori chiarimenti, Dyl si mise a svolgere l'esercizio che gli avevo assegnato.

•••

Una volta finito di esercitarci per la verifica che si sarebbe tenuta due giorni dopo, io e Dylan uscimmo dalla biblioteca e successivamente da scuola. Per non far sì che ci salutassimo subito, si offrì di fare la strada insieme a me e accompagnarmi a casa, sebbene, così facendo avrebbe allungato il suo tragitto, dal momento che abitava quasi dalla parte opposta della città rispetto a me. Durante tutta la camminata ci tenemmo per mano, parlammo, ci scambiammo qualche bacio e qualche sorriso finché, purtroppo, non arrivò il momento di separarci. Mi accompagnò fino alla porta d'ingresso e, prima che aprissi la tasca dello zaino per prendere le chiavi, appoggiai entrambi le mie mani sulle sue spalle. Lo fissai per qualche istante, senza dire né fare nulla. A volte mi piaceva semplicemente perdermi a guardarlo, passare in rassegna ogni singolo dettaglio del suo viso, a partire da quei deliziosi riccioli neri che adoravo, le sopracciglia scure e definite, quei magnifici occhi di mille sfumature di azzurro, il naso leggermente all'insù e con pochissime lentiggini quasi invisibili, le labbra morbide e carnose al punto giusto, la dentatura perfetta, le guance rosate e la pelle chiarissima che diventava bordeaux non appena si agitava o si arrabbiava.

«Che c'è? Perché mi fissi?» domandò e io mi riscossi. Normalmente mi perdevo a guardarlo da lontano, soltanto quando lui non poteva accorgersene perché era da un'altra parte. «Niente» risposi, sperando che bastasse.

«Megan...» disse con tono preoccupato e che fece agitare anche me al tempo stesso.

«Che c'è?» chiesi, afferrandogli una mano, quella che non era bendata. Quel mio banale gesto sembrò rassicurarlo, così che si convinse a vuotare il sacco.

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