𝟔. 𝐨𝐮𝐭 𝐨𝐟 𝐩𝐫𝐨𝐠𝐫𝐚𝐦.

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Iris


«Ti rivoglio in Wakanda senza il minimo graffio, Iris.

Sono stato chiaro?»



Avevo sempre odiato gli appostamenti.
Si da quando avevo iniziato l'addestramento allo S.H.I.E.L.D, anni prima, avevo mostrato una vera incapacità nel restare ferma ad aspettare; ero sempre stata brava, invece, nei raid: ero veloce, famelica e con una vorace voglia di agire che mi teneva sempre sulle spine. Certo, avevo imparato a portare pazienza nel tempo, ma non poi così tanta.
Ero malata d'adrenalina, o almeno così sosteneva Ally, e io non le davo mai torno; in fondo, molto in fondo, sapevo che era la verità.
Quindi, quando mi ritrovai appostata in un piccolo viale laterale di un palazzo alquanto malandato, proprio di fronte all'ospedale in cui era ricoverato Tony, in sella alla mia xsr 900, di certo non ero felicissima. Diciamo che ero in una sorta di lieve accettazione: per quanto Nick mi avesse assicurato che Tony mi stava in realtà aspettando, non ero del tutto sicura che non fosse circondato da guardie che, a differenza sua, non si aspettavano per niente la mia visita.
Eppure, da quando avevo spento i motori, quella mattina, non c'erano state auto sospette, nessuna guardia, in borghese e non, aveva fatto capolino dall'ospedale e non c'era stato alcun cambio di guardia. Il sole iniziava ormai a tramontare, e il tempo a mia disposizione stava per scadere.
Era arrivato il momento di agire, la parte migliore.
Sistemai meglio il cappellino da baseball nero sui capelli e abbassai la visiera quel tanto che bastava per nascondere il mio sguardo a chiunque avessi incontrato.
Infilai le chiavi della moto in tasca, agganciai il caso alla moto e poi mi avviai verso l'ospedale. Zigzagai tra le auto bloccate nel traffico intenso di New York, che amavo soprattutto per il suo caos, e chiusi di più la giacca di pelle per proteggermi dal vento fresco che s'infilava sotto la maglietta leggera e mi faceva rabbrividire.
Le porte a sensore scivolarono silenziose al mio arrivo, lasciandomi entrare senza alcun problema; i corridoi erano ancora pieni di visitatori, i cui minuti stavano per scadere, e così mescolai a loro camminando a testa bassa, le mani nelle tasche. Svoltai verso destra e m'infilai in uno dei suoi ascensori in attesa, momentaneamente vuote: non sapevo per certo quale fosse il piano riservato a Tony, Nick non me l'aveva detto. In effetti, non mi aveva dato poi così tante informazioni, a ripensarci.
Fui però molto fortunata.
Affisso proprio sopra alla lunga tastiera di bottoni, in caratteri bianchi su sfondo rosso, c'era un piccolo cartello.

"L'accesso al secondo piano è, momentaneamente e severamente, vietato a chi sprovvisto di permesso.
Livello di sicurezza 3.
"

Scossi il capo, esterrefatta da tanta irresponsabilità, e pigiai il bottone del secondo piano. Come potevano affliggere un cartello del genere? Tutti sapevano che Tony era ricoverato in quell'ospedale: i telegiornali ne avevano parlato per giorni senza sosta.
Le porte si chiusero lentamente ed io mi appiattii alla parete, così che chiunque avessi trovato ad aspettarmi, non mi avesse visto subito. Mi chinai a sfilare un piccolo pugnale dallo stivale al ginocchio e lo nascosi dietro la schiena, poggiando poi le scapole alla parete. L'ascensore rallentò, fece un piccolo saltello e si fermò producendo un 'din' al quanto rumoroso. Le porte si aprirono silenziose e, sebbene mi aspettassi almeno qualche guardia in allerta, ad aspettarmi sembrava non esserci nessuno.
Inarcai un sopracciglio, confusa, e mi sporsi oltre le porte quel tanto che bastava per sbirciare nel corridoio: nemmeno un infermiere stava calcando le piastrelle lucide e grigie del corridoio, il silenzio veniva interrotto di tanto in tanto dallo sfarfallare dei neon, ma da nient'altro. La luce bianca, tipica degli ospedali, illuminava le pareti azzurrine e le porte di una tonalità leggermente più chiara, che quasi si mimetizzavano completamente alla parete.
Mi raddrizzai, sorpresa, e seppur ancor titubante uscii allo scoperto; gettai una veloce occhiata prima a destra e poi a sinistra, e alla fine decisi di continuare verso sinistra. Continuai a camminare per un po', pregando di non dover aprire tutte le porte del piano per trovare Tony, quando sentii la sua voce: lontana, troppo per poter sentire cosa stesse dicendo, ma la seguii a passi veloci.
«Sono stanco di stare qui dentro. Ho cacciato tutti, basta.» lo sentii sbraitare, quando fui vicina a una porta socchiusa: dall'interno arrivava il rumore sommesso di una televisione, di passi lenti e sospiri. Ci fu qualche attimo di silenzio, in cui mi appoggiai alla parete per ascoltare: sbagliato, ma a mia discolpa non ero solita fare cose del genere.
«Sono stanco di quelle stupide guardie, sempre lì a fissarmi, Pepper. Ecco perché... non ti azzardare... Pepper!»
Scossi il capo, ora era tutto più chiaro. Ecco perché non c'era l'ombra di una guardia su quel piano: Tony doveva aver fatto una delle sue scenate.
Sospirai, roteai gli occhi e bussai lievemente alla porta: ci fu qualche attimo di silenzio, poi passi frettolosi e quella si spalancò, mostrandomi la visione di un Tony Stark decisamente dimagrito, con la barba un po' incolta e non delineata. Feci scivolare lo sguardo sul suo abbigliamento, che si riduceva a una camicia bianca abbottonata quasi del tutto con le maniche arrotolate fino al gomito, infilata in un pantalone dal taglio classico, nero, che gli sfiorava appena i piedi nudi.
«L'ospedale ti dona.» esordii, sincera al cento per cento. In realtà, quella nuova sottospecie di look gli donava un'aria del tutto nuova, quasi affascinante: e di fascino, Stark, ne aveva già una quantità industriale. Lui roteò gli occhi e mi diede le spalle, tornando in camera; lo seguii senza fiatare e accostai la porta.
«Avevo detto a Nick di lasciarmi in pace.» mormorò, appoggiandosi al letto per indossare i calzini. Gettai una veloce occhiata alla stanza, decisamente molto grande e con un'enorme vetrata da cui penetravano i tenui colori del tramonto, poi mi concentrai di nuovo su Tony. Incrociai le braccia al petto e poggiai la schiena alla parete, proprio di fianco alla porta.
«E dire che a me aveva detto che mi stavi aspettando.» feci spallucce e lui sbuffò, infastidito.
«Tipico!» mormorò tra i denti, mentre allacciava furiosamente le scarpe. Dovette fare un movimento troppo veloce, perché digrignò i denti per trattenere un grido di dolore e si portò una mano al petto, nel punto in cui aveva ricevuto il secondo colpo.
«Smettila di agitarti Tony, non ti fa bene.» mormorai, staccandomi dalla parete.
«Sembra di sentir parlare Pepper.» sussurrò lui, raddrizzandosi, ancora dolorante. Mi avvicinai, lentamente, e gli sistemai per bene i cuscini, poi gli indicai il letto con un gesto del capo. Lui mi fulminò con lo sguardo ma, alla fine, sollevò i piedi con tanto di scarpe sul letto apparentemente comodo e si adagiò ai cuscini.
«Lei ti vuole bene,» spiegai, poi guardai le scarpe con aria grave «e tu sei un ingrato.» aggiunsi, incrociando le braccia al petto.
«Cosa vuole sapere Nick?» chiese lui, sviando il discorso. Roteai gli occhi.
«Se hai notato qualcosa di strano, prima degli spari.» dissi, facendo spallucce. Lui ci pensò su per qualche secondo.
«Non esattamente.» disse, serio.
«Tony!» mi lamentai io, roteando gli occhi.
«Nel senso che era un evento di beneficenza privato: ci si poteva accedere solo con invito. Avevo scelto io la struttura: una sala privata di un hotel sconosciuto. Ho scelto personalmente ogni guardia, insieme a Pepper, e lei ha davvero una memoria fotografica.» iniziavo ad interessarmi, così mi avvicinai di più al letto.
«E lei, prima che salissi sul palco, mi aveva detto che poco prima aveva notato un uomo che non conosceva: non era un ospite, ne una guardia e di sicuro non un cameriere, visto che aveva scelto lei il catering e conosciuto i tre unici camerieri a disposizione. Non gli ho dato peso, probabilmente aveva preso una svista... ma, ovviamente, avevo torto.» annuii alle sue parole.
«Qualcos'altro?» chiesi, anche se quello che mi aveva detto era abbastanza interessante: recuperati i nastri delle telecamere dell'hotel che avevano scelto, di sicuro saremmo potuti risalire all'uomo adocchiato da Pepper. Tony sembrò sprofondare nei ricordi e si chiuse in un mutismo che durò per un tempo indeterminato, che passai con lo sguardo fisso sui miei stivali in camoscio: doveva essere stata davvero dura.
«Ho visto il mirino, prima di sentire il dolore. Sai, la lucina rossa, credo che tu c'è l'abbia presente. Ricordo la finestra in frantumi e l'amara consapevolezza che qualcuno mi aveva fregato.» continuò, dopo un po', con lo sguardo perso nel vuoto. Scosse il capo, amareggiato, e puntò lo sguardo su di me.
«Dov'è la sicurezza?» chiesi, indicando il corridoio alle mie spalle. Lui roteò gli occhi.
«Se ne stavano fermi, lì, a fissarmi. Mi seguivano in bagno, Iris. In bagno! Ho dovuto mandarli via, avevo bisogno di pace.» spiegò, quasi come se avesse ragione. Quasi gli scoppiai a ridere in faccia, ma qualcos'altro attirò la mia attenzione: passi, lenti ma precisi, lungo il corridoio.
Mi portai un dito alle labbra, per intimargli il silenzio, e mi appiattii alla parete. I passi si fermarono di colpo proprio davanti alla porta appannata, che si aprì lentamente. La frusta arrotolata al mio polso si srotolò sotto mio comando e mi scivolò fredda tra le dita, pronta all'attacco.
«Ho detto nessuna guardia, cosa non è chiaro?» domandò Tony, a qualcuno che ancora non riuscivo a vedere. Ci furono alcuni attimi di silenzio, poi una figura possente varcò la soglia con una mano affondata nella tasca del giubbotto nero.
Da come teneva le spalle tese e le gambe larghe capii che c'era decisamente qualcosa che non andava.
I miei timori furono confermati quando, estraendo la mano dalla tasca, notai la canna di una calibro 9 brillare alla luce dei neon che penetravano dal corridoio alle sue spalle: scattai immediatamente in avanti. La frusta, ben stretta nella mano destra, si allungò e si arrotolò attorno al polso della mano armata: l'uomo sembrò accorgersi di me solo in quel momento. Strattonai quanto più potevo la frusta, facendolo voltare verso di me, con tanto di pistola ancora puntata; scivolai sulle ginocchia, per evitare un possibile colpo, e quando mi rialzai ero faccia a faccia con lui: i capelli rasati a zero, la barba folta, lo sguardo duro e serio che s'incollava immediatamente al mio. Mi sorrise, ma non con simpatia o come può sorriderti un amico, ma con un velo di cattiveria che mi fece rabbrividire. Tirò indietro la testa leggermente, pronto a colpirmi, ma fui più veloce e, un po' nel pallone, feci l'unica cosa possibile: gli calpestai il piede quanto più potevo, col tacco decisamente basso dello stivale. Lui grugnì per il dolore e si chinò in avanti, spontaneamente, così gli afferrai le spalle e gli piazzai una ginocchiata all'altezza dello stomaco, seguita subito da un'altra. La pistola scivolò vià dalla sua presa e si fermò in un punto imprecisato del pavimento.
Lui grugnì di nuovo, mormorò qualcosa che non riuscii a comprendere, poi mi afferrò le gambe con le mani doppie e forti, mi sollevò leggermente da terra e mi spinse via, dritta con la schiena contro la parete.
Mi mancò il respiro, ma mi tirai prontamente su: la frusta si arrotolò di nuovo intorno al mio polso con velocità inumana, comandata da me, che assumevo una posizione di difesa.
Lo sconosciuto si tirò su, scosse il capo, e si avvicinò minaccioso: girai su me stessa e provai a colpirlo all'altezza del viso con un calcio, ma lui si abbassò, evitando così il colpo. Mi afferrò la caviglia ancora sospesa in aria e mi tirò verso di lui, strinse l'altra mano intorno al mio collo: serrò la stretta per qualche secondo, mozzandomi l'aria, e poi mi lanciò, nel vero senso della parola, di nuovo contro il muro.
Il dolore fu intenso ed istantaneo, il mio nome urlato da Tony arrivò ovattato alle mie orecchie, ma mi rialzai nonostante fossi stordita. Il colpo era stato decisamente più pesante del primo.
Tossii appena e l'uomo sorrise, poi assunse un'espressione quasi ammirata. Si avvicinò a passi veloci, senza nemmeno il minimo accenno di stanchezza, mentre io dovevo fare profondi respiri: mi colpì violentemente col dorso della mano dritto sul viso, facendomi girare la faccia di lato con uno stacco secco. Qualcosa mi scivolò lungo il mento e dovetti appoggiarmi alla parete dietro di me per riprendere l'equilibrio: c'era qualcosa di diabolico nei suoi colpi.
Mi colpiva con cattiveria, forza, spietatezza: era lì per uccidere, e non se ne sarebbe andato senza aver compiuto il suo dovere.
Ripescò la pistola dal pavimento e la puntò di nuovo verso Tony, che aveva assistito alla scena impotente.
Eravamo punto e d'accapo.
Alzai lo sguardo su di lui e mi sembrò sconvolto, quasi arreso, spaventato. Ordinai alla frusta di srotolarsi e lei lo fece senza obiezioni, tirai il braccio indietro e colpii con quanta forza avevo il polso della mano armata, di nuovo. La frusta si arrotolò, tirai con forza e il braccio dello sconosciuto virò l'arma verso di me, proprio nell'esatto momento in cui esplodeva un colpo.
Il tempo sembrò fermarsi.
Gelai sul posto.
Tony si sporse verso di me, quasi volesse fermare ciò che stava per accadere, ma prima del dolore, del mio nome urlato dalla sua voce spaventata, ci fu l'adrenalina. Un'adrenalina che non avevo mai provato prima e che mi spinse a scattare in avanti: alzai una gamba e colpii il mio avversario con un calcio in pieno petto, seguito subito da un altro. Lui arretrò di qualche passo ad ogni colpo, perché proprio non si aspettava quella mia reazione, e poi, avvicinandomi fulminea, gli colpii il polso, disarmandolo. La pistola cadde sul pavimento, scivolò verso la porta e si fermò sotto lo stipite, quasi nel corridoio. Io continuai la mia aggressione: colpii lo sconosciuto con un pugno al viso che mi fece dolere le nocche, un calcio al fianco e poi, quasi non avessi ricevuto un addestramento degno di essere chiamato tale, mi avvicinai quel tanto che bastava per tirargli una potente ginocchiata alle parti basse. Lui, confuso dai colpi precedenti, ricevette quest'ultimo completamente scoperto: si chinò in avanti per il dolore e scivolò sulle ginocchia, mormorando parole tra i denti che non riuscii a capire.
«Vaffanculo!» urlai, mentre lo colpivo al viso con un calcio, girando su me stessa. L'impatto forte e troppo ravvicinato lo fece crollare al suolo, svenuto.
Come c'ero riuscita proprio non lo sapevo.
Crollai, con le mani sulle ginocchia, e ordinai alla frusta di arrotolarsi al mio polso: fu in quel momento, quando l'adrenalina era ormai scemata e il pericolo quasi scampato, che lo sentii... il dolore.
All'altezza della spalla, improvviso come una scottatura, un dolore sordo che mi fece sobbalzare: la giacca era strappata in un punto, da cui fuoriusciva del denso e rosso sangue.
Mi tirai su, ignorando l'accaduto.
«Tony...» sussurrai, esausta «dobbiamo andare, adesso!» aggiunsi poi, con un tono più autoritario. Provai a camminare, ma dovetti appoggiarmi alla parete alle mie spalle: il dolore stava aumentando, precedentemente oscurato dall'adrenalina, e anche i colpi precedenti si facevano sentire. Il viso mi doleva e l'occhio sinistro, quello colpito, pulsava minaccioso. Lui si avvicinò veloce e portò il braccio non ferito intorno al suo collo, poi mi accompagnò fuori dalla stanza. Si fermò subito nel corridoio, mi adagiò alla parete e si chinò a raccogliere la pistola; poi chiuse la porta della stanza a chiave e sfilò il cellulare dalla tasca. Ignorai cosa stesse facendo e mi concentrai sulla ferita: il sangue continuava a scivolare sulla giacca di pelle, gocciolava sul pavimento, macchiandolo di un rosso vivo. Lanciai una veloce occhiata al corridoio, poi scivolai verso un carrello lasciato incustodito: recuperai una garza dai bordi adesivi, poi cercai tra le boccette di medicinali qualche antidolorifico. Quasi urlai di felicità, quando lo trovai: buttai giù due pastiglie e mi affrettai a sfilare la giacca, digrignando i denti. La incastrai tra le ginocchia e spostai la T-shirt zuppa di sangue, ma sarebbe stato inutile applicare la garza con quella indosso. Si sarebbe sporcata in pochi secondi.
Roteai gli occhi e puntai lo sguardo su Tony, che stava infilando il cellulare di nuovo in tasca.
«Aiutami.» mormorai, sollevando di poco la T-shirt. Lui sembrò capire immediatamente cosa volevo fare e così, afferrando i lembi della maglia, mi aiutò a sfilare prima il braccio intatto e poi quello ferito. Quasi urlai quando staccò la stoffa dalla ferita.
«Dobbiamo vedere se la pallottola è dentro.» disse, avvicinandosi di più, ma scossi il capo. Applicai velocemente la garza, sperando che fermasse almeno la fuoriuscita di sangue, e infilai di nuovo la giacca, tirando su la cerniera quanto più potevo.
«Non abbiamo tempo.» dissi, arrotolando la T-shirt tra le mani. Sfilai poi la pistola da quelle di Tony e la infilai nel dietro dei Jeans, coprendola con la giacca. Gli intimai di seguirmi con un gesto del capo e provai a darmi un contegno una volta in ascensore: gli antidolorifici iniziavano a fare effetto, ma il dolore c'era ancora.
Ally mi avrebbe ucciso, e non solo lei.
«Pepper ci aspetta.» esordì all'improvviso Tony, mentre l'ascensore partiva con un piccolo sobbalzo. Mi voltai a guardarlo di scatto.
«Pepper?» chiesi, inarcando un sopracciglio.
«E' la mia futura moglie, la amo, sarà la prima persona che vorranno colpire per ferirmi. Non la lascerò in balia degni eventi, non di nuovo. È la seconda volta che provano ad uccidermi, quindi lei verrà con noi.» spiegò, serio come non mai. «Ovunque tu mi porterai.» aggiunse poi, quasi sapesse già di dovermi seguire in Wakanda.
Roteai gli occhi, perché il suo discorso non faceva una piega, e sospirai.
«Dove posso lasciarti? Intendo un posto sicuro, dove non dovrò preoccuparmi di trovarti probabilmente morto.» chiesi, piegando leggermente il collo di lato. La spalla pulsava in modo inquietante.
«Cosa intendi?» domandò. Arricciai il naso e tornai a guardarlo.
«Non offenderti, ma senza armatura sei soltanto un playboy. Non posso avere... impicci, mentre recupero la tua amata.» spiegai. Lui mi fulminò con lo sguardo e restò sovrappensiero per qualche secondo.
«Rhodey.» annunciò poco dopo, guardando dritto verso le porte. Annuii e infilai una mano nella tasca, ripescando le chiavi della moto.
«Bene.» dissi, mentre le porte si aprivano lentamente al piano terra. Gli allungai il berretto e sistemai i capelli corti con la mano pulita.
«Spero che la tua amata non abbia molti bagagli, la mia piccola non è fatta per le valigie.» aggiunsi poi. Gettai la T-shirt nel cestino che trovai subito fuori dall'ascensore e mi avviai verso l'uscita, seguita a ruota da Tony.

Operazione J.E.R.I.C.H.ODove le storie prendono vita. Scoprilo ora