Camminò finche non capì più dove si trovasse, aveva anche quasi finito il pacchetto di sigarette, talmente tante ne aveva fumate. Lui camminava semplicemente per le strade di Londra, senza nemmeno sapere dove stesse andando. Era arrabbiato, frustrato, stufo, offeso. Non sopportava più quella ragazzina, non riusciva a capire perché lo stesse ancora tormentando. Era davvero insopportabile. Aveva messo su tutto quel teatrino, solo per dargli una stupida lezione, solo per fargli capire che le persone non si pedinano. Ma quanti anni pensava che lui avesse? Tre? Si comportava come una madre che deve far capire al figlio le cose che non vanno fatte. Lui aveva diciannove anni, in realtà diciotto, ne avrebbe fatti diciannove solo pochi mesi dopo, ma comunque era più grande di lei. Che diavolo le era saltato in mente? «Stupida ragazzina.» continuava a ripetersi in testa. Era così arrabbiato che prendeva a calci ogni cosa che si trovasse sul suo percorso, lattine, sacchetti della spazzatura abbandonati, anche i mozziconi delle sue stesse sigarette. Lui voleva solo essere lasciato in pace, lui voleva restare solo, com’era sempre stato. Lui se la cavava perfettamente, lui sopravviveva benissimo senza l’aiuto di nessuno. Lui era Michael Clifford, per la miseria! Lui era quello che aveva sostenuto sua madre quando suo padre li aveva abbandonati, nonostante avesse solo tre anni. Lui era quello che si era trovato un lavoro quando sua madre era morta in quell’incidente stradale. Lui non aveva bisogno di una piccola ragazzina e del suo fidanzatino inseparabile ad aiutarlo, a tirargli su il morale, a preoccuparsi per lui. Non si preoccupava nemmeno lui per sé stesso, di certo non avrebbero dovuto farlo loro, due emeriti sconosciuti. Si erano presentati da lui quel giorno, tutti sorridenti, tutti felici, con l’idea che subito dopo sarebbero diventati inseparabili, come se fossero dei bambini dell’asilo. Perché a Michael quei due sembravano solo quello, sembravano solo due bambini della scuola materna. «Che idioti.» si ripeteva ancora. Quella ragazzina era arrivata nella sua vita e pretendeva di stravolgerla come un uragano, come un terremoto, doveva darsi una calmata. Era arrivata, lei, un giorno, senza che nessuno le avesse chiesto nulla, aveva deciso che l’avrebbe trasformato in uno come lei, in un bravo ragazzo, ma cosa cavolo aveva nel cranio? Di certo non un cervello, pensava lui. E poi, aveva deciso di punirlo facendogli incontrare una bellissima ragazza dai tratti australiani, non le sarebbe potuto venire in mente uno scherzo più idiota. E lui ancora più idiota che ci era anche cascato, che non aveva fatto caso che il numero di quella ragazza non aveva il prefisso australiano ma inglese. Si sentiva anche in colpa ora, perché, pensando che vivesse in Australia, l’aveva chiamata alle tre del mattino e probabilmente l’aveva anche svegliata. Ora si considerava un emerito deficiente. Continuava a domandarsi come diamine avesse fatto a cadere in quello scherzo. Talmente accecato dall’odio per quella ragazzina, talmente infastidito dal suo comportamento, che non aveva fatto caso alle cose più ovvie. «Stupido idiota.» continuava a dirsi. Sicuramente più stupida di lui era quella ragazzina, quella Clary Cooks. Ma cosa credeva, che lui fosse uno come Luke? Uno che si fa comandare a bacchetta da lei? No, mai. Non lo era mai stato e mai lo sarebbe diventato. Lei era arrivata, tutta sorridente, quella mattina, a infastidirlo mentre cercava di passare l’intervallo solo, mentre cercava di fumare la sua sigaretta in pace, mentre si faceva i suoi programmi, mentre si faceva i grandissimi affari suoi. Questo a Michael non sarebbe mai andato giù. «Ficcanaso di una Cooks.» pensava. Per quella ragazza non aveva una parola di apprezzamento, non riusciva a trovarle un pregio. Per lei gli erano rimaste solo parolacce e insulti, in lei vedeva solo difetti. Era così presuntuosa, gli faceva venire l’orticaria talmente lo irritava. Era così ingenua da pensare che sarebbero bastate delle scuse per non farlo arrabbiare, dopo che gli aveva fatto fare la figura dell’idiota davanti a Hilary McSenior? Era davvero una bimba. Non solo era più piccola d’età, era più piccola anche di testa. La odiava così tanto. Aveva cercato di cambiarlo, voleva farlo diventare un bravo ragazzo come lei. Gli salivano i conati solo a pensarci. Lui, un bravo ragazzo? Scoppiò a ridere così forte che una signora in bicicletta che lo aveva appena superato si voltò a guardarlo come se fosse un pazzo. Non che i suoi capelli contribuissero a non far fare quel genere di pensieri alla gente, erano abbastanza in disordine, ma non era questo il punto. Il punto era che quella Clary era così odiosa, che avrebbe voluto picchiarla, talmente lo innervosiva, anche solo il pensiero. Doveva togliersi, doveva lasciarlo in pace. Lui non sarebbe diventato un bravo ragazzo, lui non sarebbe diventato suo amico, lui non sarebbe uscito con lei, lui non l’avrebbe più guardata, pensata. Quella ragazza doveva abbandonare la sua mente. La odiava così tanto che ormai pensava solo a quanto lo facesse arrabbiare. “Odiami e sarò sempre nei tuoi pensieri.” questa frase rispecchiava perfettamente quello che Michael sentiva nei confronti di Clary. Odio, allo stato puro. All’inizio non era stato così, all’inizio non aveva intenzione di odiarla, voleva semplicemente che lo lasciasse stare, che lo lasciasse in pace. Si era presentata da lui con la scusa che a Luke serviva una sigaretta e lui ci aveva creduto, aveva pensato che gliel’avessero chiesta perché era l’unico fuori a fumare, ma la realtà era un’altra. Loro volevano essere suoi amici perché provavano pena nei suoi confronti. Ma lui non aveva bisogno della pena di nessuno. «Non ho bisogno di nessuno.» si ripeteva per l’ennesima volta, cercando di convincere anche sé stesso.
Alzò finalmente la testa dall’asfalto, si era fatta notte ormai, non sapeva nemmeno dove si trovasse. Si guardò un po’ intorno, sperando che quell’ultima persona che rincasava potesse aiutarlo, ma doveva essere davvero molto tardi, perché in giro non c’era nessuno. C’erano diverse case, sembravano costose, doveva essere finito nei quartieri ricchi a nord di Londra. «Oh perfetto, guarda cos’ha combinato ancora quella ragazzina.» per colpa sua si era perso, per colpa di Clary, per colpa di tutti i pensieri che era arrivato a fare su di lei talmente si era innervosito. Tirò fuori il cellulare per controllare l’ora: 9.03 p.m. e non aveva nemmeno cenato. Rimettendo a posto il telefono sentì qualcos’altro in tasca, solo in quel momento si ricordò della bustina di erba che non aveva ancora fumato. Che altro aveva da perdere? Tirò fuori dalla tasca posteriore dei suoi jeans il portafogli, dove teneva le cartine e i filtri. Quando accese quella canna si sentì più leggero, più libero, ogni preoccupazione era sparita, ogni pensiero, che fosse su Clary o meno, aveva abbandonato la sua mente. Si sentiva calmo e in pace con sé stesso. Quella sensazione di vuoto che tanto amava si era fatta spazio nuovamente in lui. Sospirò, cacciando fuori quella nuvola spessa di fumo. Si sedette sul marciapiede e iniziò a ridere. Si stese lì, sull’asfalto freddo e un po’ umido, e iniziò a rotolarsi dalle risate, finì anche in mezzo all’aiuola che separava la pista ciclabile dalla strada. Si sentiva così felice, così fuori da tutto, così… bene. Anche se nel suo rotolare si era un po’ bruciato il braccio, finendo per sbaglio sopra alla parte che ancora ardeva; aveva sussultato un po’, fermando le sue risate, e si era controllato il braccio, come se non capisse perché gli facesse male. Poi era tornato a ridere, senza darci troppo peso. Gridava cose senza senso, urlava cose come «Sono il re del mondo!», o peggio «Clary Cooks è la mia migliore amica!». Cose che, se non fosse stato completamente fuori, non avrebbe mai detto, nemmeno sul letto di morte o sotto tortura. Era completamente andato, era del tutto fatto. Si era perso. Non solo nel senso che non sapeva dove fosse e come tornare a casa, aveva perso sé stesso. Non si sentiva più, non ricordava più quale fosse il suo nome, non sapeva più chi fosse, cosa fosse. Ormai gli era rimasto solo il filtro in mano, che aveva spento nella piccola aiuola che costeggiava il marciapiede. Se in quel momento qualcuno gli avesse chiesto come si sentisse, avrebbe risposto “unicorni”. Ne vedeva proprio uno davanti a lui. «Oh, un unicorno!» aveva esclamato con l’enfasi di un bambino, ma con la voce roca. Ma il mistico animale corse via subito dopo. Michael rimase un po’ confuso vedendo il suo amato amico unicorno andarsene così velocemente. Voleva piangere, ma tutto quello che riuscì a fare fu ridere ancora. Poi si addormentò lì, sul confine tra il marciapiede e l’aiuola.
Si svegliò la mattina seguente, grazie ai raggi del sole che gli battevano in pieno viso. Sentiva un forte mal di testa e si domandava ancora dove si trovasse. Com’era arrivato lì? Cos’era successo la sera precedente? Si mise seduto sullo scalino del marciapiede, tenendosi la testa con le mani: gli girava tutto. Iniziò a ricordare qualcosa: la sua vendetta, Clary e Luke che l’avevano preso in giro, la sua camminata lunghissima in cui si era fidato ciecamente del suo senso dell’orientamento, che l’aveva tradito, e infine, la canna che aveva fumato. Ora capiva tutto quanto, il mal di testa, i giramenti. Si diede dell’idiota e si maledisse mentalmente per non essere semplicemente andato a casa dopo quella litigata. Prese il cellulare e controllò l’orario: 05.22 a.m., «Quando si dice di essersi svegliati all’alba» pensò. Il display mostrava però la notifica di un messaggio, il mittente era “Megan”, ma non esisteva nessuna Megan, perciò si ricordò di Hilary.
“Hey, Michael, sono Hilary. Spero tu non sia troppo arrabbiato anche con me. Mi dispiace per lo scherzo. Sono stata comunque bene ieri pomeriggio con te, grazie mille.
Ci vediamo a scuola, Hilary xx.” Sorrise leggendo quelle parole, sarebbe stato carino invitarla a uscire qualche volta. Scosse immediatamente la testa a quel pensiero, lui non voleva uscire con nessuna, lui non aveva bisogno di una fidanzata, che razza di pensieri stava facendo? Doveva essere qualche rimasuglio dell’erba fumata la sera precedente. Contò gli spiccioli che gli restavano nel portafogli, erano abbastanza per un biglietto della metro, che l’avrebbe portato il più vicino a casa possibile. Non sarebbe sicuramente andato a scuola quella mattina, non dopo ciò che era successo il pomeriggio precedente e quello che aveva combinato poche ore prima. Si alzò e si diresse verso la prima fermata della metropolitana che incontrò. Quando arrivò al suo magazzino, ad accoglierlo c’era un topo di notevoli dimensioni, che lui ignorò bellamente, si lanciò sul suo divano-letto e cadde ancora in un sonno profondo.
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She Hasn't Been Caught // Michael Clifford
Roman pour AdolescentsLe amicizie sbagliate possono far finire in strane cerchie, ma se non fosse solo un’amicizia? Se finalmente avessero trovato il pezzo mancante che li completa? Per amore ci si può far trascinare in situazioni che mai si vorrebbero affrontare? Una...