Uno

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Quando il Cecco aveva aperto la porta della cucina - come sempre, prima che il sole si facesse vivo in cielo, prima che il gallo chiamasse l'alba nel cortile -, non c'era ancora nessuno. E il Cecco se n'era rimasto immobile per un istante, lì sull'uscio, un piede dentro e l'altro nel corridoio.

«Agnese?», aveva chiesto, a se stesso più che ad altri, ché già sapeva di non trovarla. Ma il nome gli era venuto fuori e basta, d'istinto.

L'Agnese non c'era. Il silenzio, c'era, al suo posto, a colmare la mancanza. E c'era il freddo umido del fuoco non ancora acceso. Il Cecco aveva mosso un paio di passi nella stanza. Aveva controllato che nella stufa fosse rimasta della brace accesa dalla sera avanti; aveva tratto qualche legnetto di quelli fini e secchi dalla legnaia sotto la finestra e aveva ravvivato il fuoco. Non era aduso a fare i mestieri delle donne, a dire il vero; a lui avevano sempre provveduto la buonanima della Carola, finché era viva, e poi le nuore. Ma era ben in grado di prepararsi da solo le due fette di pane duro bagnate e unte che erano il suo primo pasto da che era un ragazzino, e di appendere il paiolo pieno d'acqua al gancio del camino.

«L'Agnese?». La voce del Bettino, rauca. «Ancora a letto, babbo?».

Il Cecco si era voltato, aveva lanciato un'occhiata distratta al figlio. «Sarà malata.».

«Malata, malata. Gli s'era detto, al Mino, che quella c'ha troppi grilli per il capo.».

Il Bettino aveva finito di tirare una delle bretelle per agganciarla ai calzoni di cotone grezzo. Senza nascondere il fastidio, aveva preso dalla madia due fette di pane duro, con un gesto ostentato, come se gli fosse davvero costato fatica.

«Sta' zitto, e non parlare male di chi non c'è», lo aveva apostrofato il padre. «Dimostra tu d'aver giudizio per primo.».

«Ne ho ben donde, di parlar male. Vado a spaccarmi la schiena tutto il giorno ne' campi, col freddo e col ghiaccio e quelle due bestie che manco ce la fanno a tirar l'aratro, e mi tocca anche farmi da mangiare». Il Bettino aveva parlato in fretta, la voce bassa; con il coltello aveva dato un colpetto poco convinto al legno duro del tavolo.

Il Cecco s'era rivoltato a guardarlo, contrariato. «Rispetto», aveva detto, smozzicando la parola e senza altre spiegazioni.

Ma era stato sufficiente. Il Bettino aveva incrociato soltanto per un istante lo sguardo del padre, e si era affrettato ad abbassare il suo. Era sembrato dapprima che volesse continuare a lagnarsi, ma non lo aveva fatto; aveva dedicato tutta la sua attenzione al pane, lo aveva ammollato nell'acqua tiepida, ci aveva versato sopra un filo d'olio e un po' di sale scuro.

«Scusate, babbo», aveva detto infine, una rapida passata del dorso della mano a pulire le labbra unte. «Non vi volevo mancare di rispetto.».

Il Cecco aveva accettato le scuse con un cenno, un gesto brusco che nascondeva un vago senso di soddisfazione; non era uomo di quei tempi strani, lui, in cui i genitori pareva dovessero accontentare i figli in tutto e per tutto. Aveva lasciato cadere la cosa con leggerezza - invecchiando, c'era poco da fare, si era ammorbidito - e aveva riportato la discussione entro termini più neutrali.

«Stamane viene il Menego a farci veder le bestie», aveva detto.

«Siete certo, babbo, che si possan pigliare noi? L'annata non mi par delle migliori.».

Il padre l'aveva guardato di nuovo con disappunto. «Son sessant'anni che campo di questo podere.».

E si era alzato, il Cecco, indisposto. Aveva pensato di lasciare qualche patata a cuocere sotto la cenere, per trovarla cotta e calda al suo rientro al tocco, ma il desiderio di trovarsi da solo a pensare alle trattative da fare con il Menego era stato più forte.

La cucina era calda, rispetto al corridoio; era una sensazione nota, che conosceva bene: il passaggio dal tepore al freddo, dall'aria satura di odore di cibo e di fumo a quella più netta del resto della casa. Si era allacciato ben stretto il fazzoletto di lana intorno al collo, aveva infilato il maglione grosso che indossava sempre per lavorare, ed era uscito fuori, nel cortile.

Era bello, il podere. Gli piaceva sempre vederselo lì, davanti ai suoi occhi, al mattino. Era una vista a cui non s'era mai abituato - e dire che c'era nato, in quel casale, e che da quando era bambino mai aveva visto altro. E c'erano stati anni difficili, anni incerti, ma mai quella veduta aveva smesso di consolarlo. La rimessa, il magazzino, la stalla, i campi dove d'estate veniva su il grano e d'inverno le rape, il prato dell'erba medica per le bestie e il mezzo campo a maggese, sempre diverso negli anni. E i fantocci di paglia sparsi tra i cavoli, perché tenessero lontani gli uccelli, visibili anche dietro i muriccioli che delimitavano gli spazi. Era tutta lì sotto i suoi occhi, la fatica dei suoi figli e sua e di suo padre e suo nonno prima di lui; immutata da generazioni, la terra che fioriva sotto le cure e il lavoro.

Nessuno aveva ancora aperto il recinto del pollaio, quel mattino. Ci aveva pensato lui, quasi senza pensare; sarebbe passata qualcuna delle donne, dopo, a controllare le uova. Le galline si erano immediatamente sparpagliate nell'aia, si erano date a raspare e girare e frugare con le zampe nella terra. Gli era venuta in mente la Carola, che scendeva con il grembiule stretto in vita e le pantofole di flanella, e che chiamava Qua, qua, coccò, coccò quando spargeva i chicchi di granturco. Si era intenerito, a quel ricordo, che pure ormai sembrava essersi sbiadito e perso nel tempo - quanti anni erano passati? -; preso dalla nostalgia, era andato pian piano verso il magazzino, là dove tenevano le granaglie per il pollame.

«Qua, qua, coccò, coccò», aveva detto, gli occhi inumiditi, e lo aveva ripetuto tre volte, sempre con lo stesso compiacimento.

Poi s'era fermato.

Era rimasto immobile, fermo sulla porta del magazzino. Per un istante che gli era parso lunghissimo, aveva faticato a mettere a fuoco quello che vedeva.

Era l'Agnese, per terra.

Per terra, riversa, accucciata, in un lago di sangue.

Si era avvicinato, dopo un attimo di esitazione, l'aveva toccata, l'aveva scossa, l'aveva voltata. Aveva ancora gli occhi aperti, l'Agnese. Non respirava, non si muoveva. Era fredda.

Sotto di lei, il corpo gelido e immobile del Martino, il più piccolo dei suoi bambini.

Il Cecco era rimasto impalato, fermo, come se parte di quel gelo si fosse impossessata di lui, come se improvvisamente fosse diventato incapace di compiere qualunque movimento.

«Agnese,», aveva chiamato, com'era accaduto poco avanti in cucina. Più confuso, però, ancora meno lucido. «Agnese!», aveva ripetuto, a voce più alta, e s'era quasi fatto convinto che quell'ultimo richiamo avrebbe davvero finito per destarla.

Ma non era accaduto. L'Agnese era rimasta lì, una bambola ripiegata, gli occhi che fissavano il vuoto, come se fossero stati di vetro. E il Martino - quella piccola anima innocente -, ridotto a un qualcosa di inanimato, di non esistente.

Morti.

Gli era entrata con violenza nei pensieri, quella parola, eppure non riusciva a metterla a fuoco. E s'era ritrovato in ginocchio, a scuotere forte quei corpi inanimati, ancora incapace di discernere la realtà dai sogni, senza capire cosa stesse succedendo davvero.

L'Uomo Di PagliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora