Cinque

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L'aveva consumate, le ambrogette di cotto che lui stesso aveva steso, quasi mezzo secolo prima, sul piancito della cucina. Le aveva strusciate un'infinità di volte con i piedi, camminando avanti e indietro, e sempre carico di un senso di stordimento che non voleva dischiudersi.

Il Mino, l'Agnese, il conte: il pensiero tornava sempre lì. Soluzioni non ce n'erano, o non riusciva a trovarle. Sarebbe stato ben diverso, certo, se avessero trovato l'assassino con le mani ancora lordate dal sangue. Sarebbe stato semplice, allora, darlo in pasto al conte e cercare di far scorrere il dolore per tornare, presto o tardi, a una parvenza di normalità. Ma così, con quei due corpi ancora stesi a terra, era tutto un altro discorso. Anche se gli avesse creduto, il conte, anche se si fosse fidato della saggezza e dell'onestà del Cecco - e su questo c'era davvero poco da discutere -, le voci sarebbero corse di bocca in bocca, di casa in casa. La storia che era stata messa a tacere si sarebbe diffusa in fretta, ingigantita dall'ignoranza e dalle cattive intenzioni. Il Mino sarebbe stato messo in mezzo dalle parole, prima, e dai fatti, poi.

Doveva proteggerlo, quel suo figliolo, lui e quei bambini che erano rimasti orfani di madre. Questa, a ben pensarci, era l'unico pensiero fisso che aveva, che teneva in mente. Non voleva nemmeno pigliarle in considerazione, le idee balzane del Bettino e quei suoi dubbi assurdi. Era un uomo buono, il Mino, l'avevano tirato su bene: certo sapeva distinguere il bene dal male, lui. Voleva bene all'Agnese, a lei e ai figli, e questa era una verità incontrovertibile che mai il Cecco avrebbe messo in discussione. Ma doveva agire, e in fretta, e nel bene dei molti.

Dietro ai vetri sottili delle finestre, dietro alle gocce spesse di condensa che scivolavano fin sull'intelaiatura di legno, la luce si faceva più smorta. Aveva bisogno di uscire fuori, a respirare l'aria fredda. S'era di nuovo infilato il maglione grosso e legato al collo il fazzoletto di lana, ed era tornato nel cortile.

Il Bettino, giù nei campi, stava finendo di tirar su i cavoli, assieme ai fratelli. Lavoravano in silenzio, scuri in volto, e lesti, ché la giornata volgeva alla fine e avevano trascurato i doveri per tutta la mattina. Il Cecco s'era avvicinato, a passi lenti, le mani calcate bene nelle tasche dei calzoni.

«Babbo», l'aveva chiamato il Bruno. «Che fate fuori?»

Il Cecco aveva fissato lo sguardo sul viso del figlio, sulle guance arrossate dal gelo e dal lavoro. Gli era parso tutto così normale, così spietatamente normale. C'era silenzio, sì, e questo silenzio pareva aver avvolto tutto il podere, ma la vita scorreva ancora, e la morte orrenda di una donna e di un bambino non l'aveva rallentata nemmeno un momento.

«Avevo bisogno d'aria», s'era giustificato.

«Tornate dentro», aveva risposto il figlio. «Si gela. Noi siam venuti fuori a tirar su i cavoli, prima che ghiacciassero».

Il Cecco aveva annuito. «Resto solo un minuto», aveva detto.

Il Bettino, senza dubbio. Aveva preso lo spirito ragionevole e sensato della Carola, lui. Il dolore, la morte, certo. Ma il podere era la vita di molti, uomini, donne e bambini, e quei cavoli servivano a sfamare tante bocche. Al Cecco era quasi dispiaciuto non esser stato lui, a pensarlo. Si sentiva ancora stordito, ancora annebbiato dal troppo pensare, e gli pareva d'aver perso di vista troppe cose importanti, per colpa di altre a cui non avrebbe mai potuto rimediare.

Le galline raspavano ancora nell'aia, nessuno le aveva ricondotte al pollaio. Era l'Agnese a farlo, di solito. Lui, il Cecco, nemmeno sapeva quante ne avessero. Aveva tentato, a gesti, di spingerle verso l'apertura nel recinto, ma quelle s'erano spostate di corsa, qualche verso sgraziato e ali agitate. Era tornato verso casa, con l'idea di chiedere aiuto a una delle donne. E in fretta, anche, ché il buio scendeva lesto e gli animali erano troppo preziosi per lasciarli a volpi e faine.

L'Uomo Di PagliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora