S'era sentito tirar via dal sonno, una sensazione strana, che non avrebbe saputo spiegare. Aveva aperto gli occhi, con il capo che già tratteggiava quel che avrebbe dovuto fare dopo - il percorso della consuetudine, dal bacile di rame accanto alla finestra alla cucina, dalla cucina al campo, ché era dì di vanga. Ma subito qualcosa gli era parso strano; il sole ancora s'attardava sull'intonaco, basso come quello del primo mattino, ma dall'altro lato. Avvertiva una figura, alla sua destra, ma sfocata. E poi l'aveva assalito il ricordo di quei due passi nel cortile, mossi a fatica, l'aria frizzante che gli mordeva il viso fino a fargli male, e quella sensazione di stanchezza, manco avesse faticato per tutto il giorno.
Aveva voltato il capo, e aveva scorto il Mino. Immobile, seduto al suo canto, lo sguardo perso da un'altra parte, presente e assente al tempo stesso. Ma i suoi occhi dovevano aver percepito il movimento, ché si erano voltati, e l'avevano trovato.
«Babbo», l'aveva chiamato, a voce bassa, quasi un bisbiglio.
«Mino.»
«Come vi sentite?»
Era una domanda a cui ancora non sapeva rispondere. «Eh.»
Il Mino era rimasto un attimo in silenzio, come se avesse avuto bisogno di tempo per rimettere in ordine i pensieri. Aveva preso a sfregarsi i calzoni con le mani, avanti e indietro.
«Babbo», aveva detto, ancora. Ed era stato evidente il desiderio di parlare, ma l'incapacità di trovarne il coraggio.
«Dimmi.»
«Non volevo, sapete. Non volevo darvi un dolore.»
E il pranzo in cucina aveva ripreso forma, nella mente del Cecco. Non era un ricordo netto, un ricordo lucido. Ma vi era il Mino a capo chino accanto alla sua sedia, vi era lui che gli accarezzava il capo. C'era l'immagine del babbo quando era venuto il suo tempo e il sorriso sereno della Carola - e, per la prima volta dopo anni, gli tornava in mente nitido e pulito, come se lo avesse di nuovo avuto avanti. C'erano le parole del Mino, fabbriche e lavoro, lasciare il podere.
«Perché dici di voler andare?»
«Babbo, non sapete quanto mi siete caro.»
Il Cecco s'era sentito inumidirsi gli occhi, e bruciare. Gli pareva di non essere più capace a far altro che piangere, ed era perfino buffo: come le creature. Gli era scappato un sorriso, e un po' aveva pianto; e d'istinto aveva allungato una mano verso il figlio, che subito gliel'aveva stretta.
«Anche tu, Mino. Tu, e i tuoi fratelli, e le tue sorelle, e generi e nuore, e i bambini, tutti.»
«Lo so, babbo. Lo so. E si sa tutti, ché avete il cuore grande come la schiena, e vi siete sempre prodigato per noi tutti.»
«È il destino dell'uomo, se vuol vivere in modo retto. Pigliarsi cura de' cari, fare la sua parte.»
E ora piangeva anche il Mino, grosse lacrime che solcavano il volto smagrito. «Avete ragione.»
«E che piangi, eh? Lasciale ai bambini e a' vecchi, le lacrime.»
«Babbo, voi non sapete.»
«Che?»
E il Mino gli aveva stretto più forte la mano, se l'era portata quasi al petto.
«Babbo, non volevo farvi del male.»
«Ma quale male. M'è dispiaciuto, sì, pensare che volessi andare. Che volessi portarmi via mio figlio, proprio adesso.»
«Non c'è momento in cui io non mi senta in colpa nel pensarvi qui.»
«Qui, indove?»
«Qui nel letto». E il tono di voce s'era abbassato ancora. «Ché stavate bene, babbo, prima di quella faccenda, e sareste stato bene, se non aveste avuto da risolverla, e a quel modo.»
E le sensazioni l'avevano travolto, il Cecco, il corpicino del Martino simile a un pupazzo di sassi, il cadavere rigido e pesante dell'Agnese, quella notte maledetta alla luce della lampada, e il Menego e le sue parole insinuanti. E s'era sentito un peso sul petto, talmente forte da sembrare vero, un dolore sordo che gli arrivava alle gambe e ai piedi, che gli pulsava nel capo. S'era reso conto di aver serrato la presa sulla mano del Mino, ma non era riuscito a mollarlo.
«L'avresti fatto anche tu», aveva mormorato, tirando fuori le parole a fatica, smozzicandole.
Il Mino s'era zittito un attimo, e al Cecco era venuto perfino il dubbio che non l'avesse inteso.
«Non vi avevo pensato, babbo, sì. Altrimenti l'avrei fatto io, non vi avrei dato incarico di nulla, e questo non sarebbe accaduto.»
«Dici cose senza senso. Ho fatto quel che dovevo, e non me ne pento.»
«Lo so, babbo. Ma io sì, mi pento.»
«E di che? Che colpa ne avevi?»
Il Mino s'era liberato bruscamente dalla stretta del padre. S'era levato, aveva mosso qualche passo verso la finestra, e s'era voltato, così che gli dava le spalle.
«Non voglio andar via senza aver avuto il vostro perdono, babbo. Degli altri, degli uomini e perfino del Padreterno, poco m'importa. Ma voi, babbo. Voi contate.»
E aveva cambiato tutto di nuovo, gli era tornato vicino, s'era inginocchiato accanto al letto, aveva deposto la testa accanto a lui.
«Mino», aveva allora sussurrato il Cecco, che non capiva più nulla, se non il male di suo figlio.
«Babbo, vi prego, datemi il vostro perdono.»
«Mino, erano solo parole. Non vi ho dato peso, per cui non vi è nulla da perdonare. Chiedi scusa al Signore, piuttosto, per quello che hai detto, ché per lui le parole hanno un altro peso.»
«Sono già condannato, dal Padreterno.»
«Mino!»
Ma il Mino non s'era mosso, non aveva reagito, non aveva detto nulla. Era rimasto immobile, il capo ancora sul letto, inginocchiato davanti a suo padre. E al Cecco non era rimasto altro che girarsi - a fatica, ché le gambe gli dolevano - e poggiare ambo le mani sulla testa del figlio, sui suoi capelli ruvidi, così diversi da quando era bambino.
Se lo rammentava ancora, biondo e paffuto che pareva un cherubino, così bellino e allegro, come tutte le creature. Lo rivedeva tirar le sottane della Carola, perché lo pigliasse in collo - sempre così, lui, attaccato alla mamma. E rivedeva se stesso, che rientrava in casa dal lavoro e li trovava, la Carola e i figlioli, ed era bello sentirsi chiamare e vederseli tutti intorno.
«Non vi è nulla che il Signore non sappia perdonare, soprattutto le parole d'uno che non sa che dice.»
«Babbo, l'ho ammazzata io». Ma era un sussurro appena, quella frase, talmente labile da fargli dubitare che fosse mai stata detta.
«Che dici?»
Il Mino gli si era stretto ancora di più, e parlava ora con la bocca attaccata alle coperte, la voce che giungeva e non giungeva, il respiro più forte. «Non era mio, quel figliolo, babbo.»
«Mino...»
«Era d'un altro, babbo. Lei andava, babbo, andava lì alla rimessa, quella andata a fuoco, e faceva i suoi comodi, mentre noi si dormiva ignari di tutto», parole, parole, impastate contro le lenzuola, umide di fiato. «L'avevo vista, me n'ero accorto, gliel'avevo detto. Ma era la sua natura, la natura, non vi è nulla che si possa fare contro la natura...»
«Mino!»
Ma nulla sarebbe più riuscito a fermarlo, a quel punto. La sua voce continuava a strisciare, come se raccontare quel segreto fosse ormai indispensabile.
«Ho pigliato una pala e l'ho colpita, e mi pareva di far bene, e le mani andavan da sole, babbo...»
E di nuovo s'era fatto tutto confuso, e il peso sul petto era divenuto talmente forte da schiacciarlo, da annientarlo. Si sentiva di nuovo nelle orecchie la terribile risata del Mino, quella notte, quando aveva pensato che il dolore fosse divenuto troppo forte e l'avesse istupidito. Rivedeva quella scena da lontano, adesso, e tutto si mischiava. Rivedeva lo sguardo attonito del Bettino, la Lina terrorizzata. Vedeva la famiglia che sapeva, che aveva capito; la stalla intatta, nulla che facesse pensare a qualcuno che si fosse nascosto, e di nuovo lo sguardo del Bettino. Sapevano, e non avevano insistito. Soltanto in quel momento riusciva a sommare tutto, a montare i pezzi, ognuno al suo posto. E il petto. Il petto gli doleva da morire.
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L'Uomo Di Paglia
Mistero / ThrillerQualcuno ha ucciso Agnese e il suo bambino. E si è portato via molto più di queste due vite. Un thriller psicologico, ambientato in una realtà italiana, in una apparentemente quieta campagna d'inizio Novecento.