Otto

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Dove avesse rimediato la forza di uscire, non lo sapeva. Ma s'era ritrovato fuori, le gambe rigide e indolenzite, il gelo dell'alba che lo colpiva, che gli sferzava il viso.

Pareva che tutto il paese fosse accorso per l'incendio. Sentiva - percepiva, più che sentire, confuso com'era - suoni sovrapposti. Voci, urla, lo sbattere metallico dei secchi. Il sole aveva preso a far capolino dietro la linea distante delle colline, e il podere ripigliava forma, a poco a poco.

La porta del magazzino era ancora aperta. Non era stato uno scherzo della stanchezza, o del buio che confondeva gli occhi. Era davvero aperta.

Sul piancito di terra grezza, il sangue dell'Agnese aveva lasciato una grossa chiazza, nera nella luce ancora incerta, viscosa. L'aveva vista già a metà del cortile, quando ancora mancava un pugno di passi, e non era più riuscito a staccare gli occhi da quella macchia informe.

«Cecco!», s'era sentito chiamare.

Ma era una voce distante, lontana da lui, lontana dal cortile, lontana dal podere. Aveva affrettato quegli ultimi passi, s'era allungato in avanti per afferrare il battente e tirare a sé la porta - con troppa forza, al punto che s'era sentito un gran tonfo -, e solo allora s'era voltato.

«Cecco!»

Il Menego era lì, a metà del cortile, un braccio alzato e un'espressione che, in quella mezza ombra, non si distingueva.

«Eh.»

«Come state?»

Come stava? Non avrebbe saputo rispondere. Sapeva solo che il cuore gli batteva nel petto troppo veloce, che il terrore che il Menego avesse scorto il sangue gli gelava perfino il respiro. E che era stanco. Tanto, troppo stanco. E gli pareva di sentirsi ancora le mani sudicie di sangue, per quanto le avesse lavate e lavate ancora.

Aveva scosso il capo, incapace di parlare. Il Menego s'era fatto più vicino, ma non aveva detto nulla.

«Posso aiutarvi?»

Stavolta aveva alzato le spalle. Non aveva ancora trovato il coraggio di guardarlo in faccia. Non poteva non aver visto. Doveva averla notata anche lui, quella patacca scura sulla terra. E l'aveva visto serrare la porta. La porta del magazzino, quando tutta Padernone era intorno al capanno coi secchi d'acqua.

«Venite, dai, vi porto dentro.»

S'era lasciato condurre come un agnellino, un passo alla volta - e che fatica, ogni passo - fino all'uscio di casa, poi alla cucina. Era ancora calda, la cucina. Era già calda.

«Avete già acceso il fuoco?»

Le odiava, quelle domande. Odiava tutte le infinite contraddizioni che il Menego stava vedendo. E odiava averlo lì accanto, nudo come un verme davanti alle richieste e alle incoerenze.

«Ch'è accaduto?», aveva chiesto, la voce che tremava, senza capire se si sentiva davvero così stordito dagli eventi, o se la sua domanda avesse lo scopo più sottile di capire cosa l'altro avesse veduto.

E gli era parso di scorgere qualcosa che somigliava alla dolcezza, nel Menego, nel fare premuroso con cui l'aveva fatto sedere al tavolo.

«State tranquillo, non è nulla.»

«Nulla?»

«Nulla, nulla. Qualcosa che non andava alla rimessa, ma s'è già aggiustato tutto, vedrete.»

Perfino il tono di voce era cambiato, s'era raddolcito. Il Cecco aveva posato le mani sul tavolo e il capo sulle mani; gli era parso di sentirsi meglio, di poter finalmente dormire e di poter dimenticare quello che era successo.

L'Uomo Di PagliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora