Dodici

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Se l'erano quasi dovuto pigliare in collo, il Cecco, per portarlo in casa. Il Bruno da un lato, il Bettino dall'altro, un passo alla volta giù per le scale - le ginocchia che non si piegavano, per quanto le forzasse, come se avessero dimenticato il movimento necessario -, lungo il corridoio, fino alla sedia dove l'avevano sistemato.

Era calda, la cucina, del solito tepore dolce. Profumava di rosmarino e di minestra, di quell'umidità sapida che s'appoggiava alla pelle. Si stava bene, lì. E guardarsi intorno, ritrovare le cose cognite, vivide nella memoria, somigliava alla felicità più di tutto quello che aveva vissuto negli ultimi tempi.

«Babbo, è bello vedervi», aveva detto la Cecilia, e subito s'era prodigata a mettergli davanti un piatto di quella minestra, perché la mangiasse, lui da solo, prima degli altri.

«Suvvia, vi aspetto.»

«Ma che volete aspettare, babbo!»

E allora aveva immerso il cucchiaio nella scodella, aveva rimestato un momento, godendosi l'immagine elementare del vapore che si innalzava in spirali attorcigliate. Gli pareva d'essere tornato bambino, di rivedere con occhi nuovi le cose che negli anni aveva imparato a dare per scontate. E gli piaceva ancora, tutto sommato. Tutti quegli anni fuggiti sotto il peso della fatica, della schiena curva sulla terra, delle mani spaccate, e adesso il mondo gli si rivelava di nuovo per quello che era, limpido, netto. Uno scherzo crudele, atto a fargli andar storta la consapevolezza di avere troppo poco tempo, ancora, per ripigliarsi ciò che aveva sacrificato.

Gli era parso di percepire, meno nitido che nella sua stanza, il tocco del campanile. E i rumori s'erano fatti più vivi, più vicini. I passi pesanti di chi rientrava in casa, le scodelle che venivano accatastate accanto al paiolo, lo sbattere metallico dei cucchiai.

«Come vi sentite, babbo?»

Domanda che pioveva da ogni parte, con tante voci diverse. Voci gentili, voci calde; qualche tocco lieve sulla schiena. Dal suo posto a capo del tavolo, li vedeva tutti, quei visi amati e noti. I capelli del Bettino avevano preso a sbianchirsi, sulle tempie; il Tonio somigliava sempre più a suo nonno. E il Mino, seduto accanto al posto vuoto che un tempo era stato dell'Agnese, a capo chino e faccia cupa. Gli era venuto in mente che il Bettino gli doveva aver detto qualcosa sul Mino, poco prima, ma non riusciva davvero a ricordare. Non doveva esser cosa importante, se non gli sovveniva.

«Mino», aveva chiamato.

L'altro aveva sollevato la testa, s'era voltato. «Ditemi, babbo.»

«E tu, tu, non mi dici nulla?»

«Sapete già tutto, babbo.»

Il silenzio che era sceso nella stanza era pesante e poco reale. Il Cecco aveva avuto la sensazione che qualcosa gli sfuggisse, ancora.

«Che so, io?»

«Pigliatevi il tempo che serve per pensare, babbo.»

Pensare a che? «Chi ha tempo, non aspetti tempo», aveva risposto, ché gli pareva di dire la cosa giusta.

«Braccia non ne levo, babbo, ché tra qualche mese torna il Nanni, e piglierà lui il mio posto.»

«Braccia non ne levi da dove?»

Il Bettino s'era proteso in avanti. «Rammentate, babbo, ciò che vi dissi poco avanti?»

E il Cecco aveva scosso la testa, piano; gli spiaceva quasi mostrarsi così, dinanzi ai suoi figlioli.

«Non importa, babbo. Ero venuto a dirvi che il Mino pensava di andar via dal podere.»

«Andar via? E indove?»

L'Uomo Di PagliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora