Nove

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E c'era stata davvero, la sensazione di liberazione.

Non subito, però. C'era stato un malessere violento, prima, che aveva preso la forma d'una serie spietata di dolori al fianco, di conati di vomito - e dire che erano ore che non riusciva a mangiar nulla -, di testa che pulsava e ragione che stentava. Le mani continuavano a tremargli, e non vi era verso di chetarle. E mai s'era sentito addosso una tale lordura, che nemmeno il sapone riusciva a lavar via dalle mani, dai polsi e dal viso: la sensazione sudicia del corpo dell'Agnese, rigido e pesante, e il puzzo acre del fumo.

Ma era sparito, sul far del meriggio, sostituito da una sensazione lieve, quasi di benessere. La confusione dentro casa, gente che andava e veniva, chi portava una parola di conforto al Mino, ancora abbandonato con il capo tra le mani, chi aiutava le donne, chi recava del pane, chi s'offriva per fare qualcuno dei mestieri.

«Povero Cecco, è stato un brutto colpo», aveva inteso dire.

Non era stato in grado di riconoscere la voce, stordito com'era, ma gli era scappato un sorriso. Pensavano che fosse l'incendio, il colpo; credevano che fosse uomo da non trovare le forze di reagire dopo un male dovuto al fato. E dire che lui sarebbe stato forte, in quel caso. Non era da lui, mettere in discussione le decisioni del Padreterno; aveva accettato che il Signore si pigliasse tutti coloro che aveva ritenuto degni del suo regno in Cielo. La Carola, che era ancora giovane, quel primo bambino che aveva appena schiuso gli occhi al mondo - e che colpa poteva avere, lui, a parte quella di non aver avuto nemmeno il tempo di essere battezzato? - e quelli che aveva conosciuto da ragazzo, ch'eran morti soldati in Africa o uccisi da qualche male senza cura. Sempre con la testa alta, lui, davanti a ciò che non aveva il potere di cambiare.

E stava bene, nel tepore di fuoco e di respiri della cucina gremita, stava bene. Gli pareva, addirittura, che tutto quello che era accaduto non fosse stato altro che un sogno, uno di quegli incubi notturni che l'alba si portava via lasciandone solo un pallido ricordo.

«Babbo», s'era sentito chiamare.

Il Bettino era entrato in cucina e gli si era seduto accanto. Aveva il viso scavato, anche lui, sporco di fuliggine e di terra; il viso di chi non ha riposato e ha lavorato comunque, come gli altri, più degli altri, nel fuoco e nel ghiaccio del terreno. S'era sentito mordere il cuore, il Cecco, per quel figliolo pieno di senno, che aveva abbandonato.

«Babbo, come vi sentite?»

«Eh», aveva mormorato, la voce un po' rauca, perché era una risposta che ancora non avrebbe saputo come formulare.

«Vedo che non state bene, non vi voglio disturbare, se non ve la sentite.»

«Dimmi.»

Tante cose portava, il Bettino. C'era da recarsi a parlare con il parroco, per accordarsi sul funerale, c'era da sistemare una baracca dove alloggiare le bestie, ché al freddo non potevano restare. C'era da pigliare del fieno, e uno dei vicini s'era offerto di portarlo lui, per poco compenso. C'era tanto da fare, e il Bettino era stanco e sfinito, incapace di decidere.

Al Cecco non era rimasto altro che alzarsi - le gambe che esitavano, che parevano non riuscire a reggerlo - e gettarsi di nuovo addosso il maglione grosso.

Era freddo, fuori, ancora più di quanto non pensasse. Si sentiva addosso la febbre, spasimi improvvisi, brividi. Non gli era mai parsa così grande, l'aia, non aveva mai fatto tanta fatica a giungere fino alla stalla.

Gli uomini avevano faticato, tutti, e avevano tirato su alla bell'e meglio una manciata di assi, per dar ricovero alle bestie per la notte. Nulla di definitivo, certo, ma un lavoro che aveva senso. E tutti lo avevano salutato, s'erano persino levati il berretto, con il rispetto antico delle tragedie, del dolore di chi ha perduto qualcuno.

L'Uomo Di PagliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora