Undici

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Ci si era abituato, al sole che scivolava su per l'intonaco, che si propagava sulla calce in fasce biancastre. E sapeva segnarle, quelle fasce, a mo' di meridiana, con tutte le volte che aveva inteso suonare il campanile della chiesa.

La febbre se l'era mangiato. Gli aveva divorato la carne, che pareva non averne più, nemmeno sul ventre. Gli aveva scavato le guance, che s'eran fatte ruvide di barba non rasata, gli aveva raggrinzito ancora la pelle delle braccia e delle mani. E il Cecco s'era ritrovato a pensare che fosse arrivata la sua ora, per più d'un momento, tanto era forte la sensazione di non poter più essere. Ma l'aveva accolta con sollievo, quella possibilità, quasi fosse stata una speranza. L'attendeva la Carola, chissà dove, e il babbo, e la mamma; e certo giunge il momento in cui non si ha più nulla da dare ai vivi, e si diviene quasi un peso. Gli era parso giusto, perfino, ché la febbre gli aveva portato via la capacità di pensare, e s'era stufato del dolore e dello star fermo.

C'era stata la Cecilia, sempre in movimento, impegnata a cambiargli le pezze sulla fronte quand'era tempo, e il Bettino, a tirarlo su dal letto e aiutarlo a tenersi pulito - ché non era un male tale da levargli la dignità, quello. E c'erano stati i bambini, a venire intorno e far rumore, che pareva che la vita fosse ancora bella. E c'era stato il Bruno che insisteva per mandare a chiamare il medico, ed era stato faticoso convincerlo a tenere le mani in tasca, ché di soldi da buttar via per le cose inevitabili proprio non ve n'erano.

E poi era passata, ed erano tornati i pensieri; era giunta la noia del riposo e il dolore alla schiena del troppo star fermo. Ma ancora non aveva trovato la forza di levarsi, di andarsi a godere il tepore della cucina, di fare due passi nel podere. Poi, e questa era la cosa che più gli pesava, aveva smarrito il senso del tempo. Non sapeva più quanti giorni fossero gocciolati via in quel patire sempre uguale, e covava la certezza di averne passati lì steso più di quanti avrebbe pensato, o voluto.

«Babbo», s'era sentito chiamare. E aveva sussultato, ché non aveva inteso nessuno varcare la porta.

Passava ogni mattina e ogni sera, il Bettino. Sempre col berretto in mano - e gli doleva il cuore, al Cecco, a vedergli addosso il rispetto dovuto ai morti, più che ai vivi -, sempre con il capo basso.

«Vieni, vieni dentro.»

Il Bettino aveva tossicchiato, s'era accostato. Vi era una sedia, accanto al letto - portata dalla Cecilia, chissà quanti giorni prima - e vi si era seduto, ma senza accomodarsi, come a disagio.

«Come state, oggi?»

«Meglio, mi pare. Avrei voglia di venire in casa, accanto al fuoco.»

Il Bettino aveva annuito gravemente. «Dite?»

«Tu, che dici?»

Gli era diventato indispensabile, quasi, l'appoggio del Bettino. S'era preso carico di tutto. Il podere, i fratelli, le cognate. S'era occupato del funerale - che doveva essersi svolto in uno dei giorni di cui rammentava solo ampie falde di nebbia -, delle bestie, della stalla. Sempre a capo chino, senza dir nulla.

«Se vi sentite, babbo, torno dopo col Bruno e vi si aiuta a scendere.»

«Non lo so.»

E non lo sapeva davvero. Aveva l'impressione di esser guarito, ma capiva poco. Non si sentiva addosso la forza dei mesi prima.

«Dopo veniamo, io e il Bruno.»

Ma era d'altro, che voleva parlare il Bettino. Se n'era accorto perché non si levava, e restava fermo a rigirarsi il berretto tra le mani, gli occhi che sfuggivano.

«Dimmi.»

Ma era servito lo stesso un po', prima che il Bettino incominciasse a parlare. Pareva che gli fossero penose a dirsi, le parole.

L'Uomo Di PagliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora