Sei

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La veglia, da che il Cecco era un bambino, era sempre stata un momento felice.

Conservava ancora dei fumosi ricordi della sua infanzia, di sua madre seduta con le altre donne a spigolare o a far matasse all'arcolaio, di suo padre seduto a parlare o a giocare a carte davanti a mezzo bicchiere di vino, dei bambini che giocavano o ascoltavano le novelle della nonna. Ed era stato lo stesso, con la Carola, quando s'erano trovati loro soli a tenere il podere, già avanti con gli anni e i figli cresciuti. Sempre bello, specie in estate, quando si trovava sempre qualcuno che, dai poderi vicini, portasse una fisarmonica.

Non quella sera.

S'era seduto come ogni veglia a capo del tavolo, un dito di vino e la testa piena di pensieri. Nessuno pareva parlare. Solo la Cecilia, ancora pallida come un cencio, s'era messa a narrare una storia ai più piccini, per distrarli. Le altre donne, mento sul petto, s'indaffaravano a cucire; gli uomini, tutti radunati attorno al tavolo, si guardavano le mani, senza il coraggio di far nulla. Il Mino non s'era visto, e nessuno aveva avuto la forza di andare a chiamarlo.

Certo, sarebbe stato diverso se l'Agnese fosse morta d'una morte bella, d'una morte dolce. Forse ci sarebbe stato silenzio lo stesso, ma sarebbe stato un altro silenzio. Si sarebbero tutti stretti attorno al Mino, attorno ai suoi figlioli; le donne avrebbero pianto, gli uomini sarebbero rimasti in silenzio, ma pronti a farsi carico di ciò che restava. Sarebbero giunti gli altri, dal borgo, a portare del pane, o una minestra pronta, per dar tempo a tutti di piangere e far scivolare via, una goccia alla volta, il lutto. E invece, quella sera, la cucina era pregna del dolore che non era stato possibile tirare fuori, della paura che galleggiava, sospesa, nell'aria respirata.

Il fiume.

Per quanto cercasse di spostare altrove i pensieri, tornava sempre lì. Il fiume. Se n'era presi tanti, il fiume, di corpi, e a volte non li aveva più resi. Il Cecco stesso si rammentava di quella volta che, poco più che bambino, aveva trovato con suo fratello un uomo a faccia in giù. Era andato il babbo, a vedere, ché lui aveva pensato a uno spirito malvagio ed era corso via urlando e piangendo. Non aveva più nulla di umano, quel corpo, del resto: bianco, quasi giallastro, gonfio e sfatto, il volto irriconoscibile. Ed era successo tante volte, che il cielo decidesse di buttar giù troppa acqua e che il fiume, pregno, giungesse alla valle e portasse via tutto quel che trovava, cose e cristiani.

E non riusciva a non pensare all'Agnese, a quel viso grazioso, e al Martino. Era davvero quello, ciò che voleva? Che qualcuno rinvenisse due figure senza faccia, senza dita, senza dignità? Si sentiva la nausea, solo a immaginarlo. E poi, se non fosse bastato? S'era avveduto che, nell'orrore della scoperta, non s'era soffermato a guardare se l'Agnese fosse stata ferita, e dove. E se l'avessero trovata troppo presto, se avessero visto ch'era stata accoltellata, o cosa? Sarebbe stato lo stesso, per il Mino: le parole, prima, i fatti, poi.

Nel bosco, poi, nemmeno a parlarne. Lasciare i due corpi ai lupi, per carità, non gli bastava il cuore. Non se n'era neppure reso conto, ma s'era preso il capo tra le mani, appoggiato coi gomiti al tavolo. Gli bruciavano persino gli occhi, e sapeva ch'erano lacrime; ma non erano lacrime da piangere, o da mostrare ai figli.

«Babbo, state bene?», aveva chiesto il Bruno.

Era una domanda inutile e fuori luogo. Come avrebbe potuto star bene? Ma era, quella, una risposta impossibile da dare. Il Cecco aveva alzato il viso, s'era passato lesto un fazzoletto sul volto, cercando di non far notare che s'asciugava gli occhi. Aveva borbottato qualche suono senza senso, ma al Bruno era sembrato bastare, ché non aveva chiesto altro.

Non ce la faceva più, il Cecco, a star fermo. Continuava a fissare quei visi abbattuti, quelle espressioni smarrite, e gli pareva di non star facendo abbastanza. Si era levato in piedi, aveva recuperato un ciocco dalla legnaia, per dare ancora di che ardere alla grossa stufa. Era pur sempre qualcosa.

«Lasciate, babbo, lasciate a me», era intervenuto il Tonio, alzandosi in fretta.

Non l'aveva nemmeno ascoltato. Aveva aperto lo sportello della stufa e vi aveva sistemato con cura il grosso ciocco, ché non ardesse troppo né troppo poco. L'aveva sospinto verso il fondo con l'attizzatoio, e gli aveva disposto intorno le braci.

Il caldo lo aveva ristorato, ancora una volta. S'era dedicato a quel compito con piacere e con lentezza - era una distrazione, pur sempre una distrazione. S'era reso conto soltanto dopo che tutti gli occhi si erano voltati per seguire i suoi movimenti, ché, nell'immobilità dei corpi e dei pensieri, aveva dato a tutti di che svagarsi.

Il fuoco.

Gli era venuto in mente soltanto dopo, il fuoco.

No, non il magazzino delle granaglie. Era di mattoni, quello, e troppo prezioso, pieno com'era, per pensare di bruciarlo.

La rimessa dietro la stalla.

L'avevano tirata su, col Bettino e il Bruno, qualche estate prima. Era stato un grosso lavoro, piazzare le assi e inchiodarle; avevano avuto bisogno di chiedere aiuto al Menego e ad altri due uomini. Ma era di buon legno, cerato e trattato a dovere. Avrebbe preso fuoco bene, e arso prima che l'allarme giungesse ai poderi vicini, e il fuoco avrebbe portato via tutto, comprese le domande.

Il cuore aveva di nuovo preso a martellargli il petto, s'era dovuto appoggiare al tavolo. Era una cosa inumana, quella che aveva pensato, inumana. Eppure...

Eppure, se l'Agnese fosse andata con un lume, se il lume si fosse rovesciato, se la paglia delle bestie avesse preso fuoco, sarebbe potuto accadere. Quante volte era già successo? Mai da loro, mai nel loro podere; ma quante volte era andato, in piena notte, a spegnere le fiamme di chi gli viveva accanto? Perfino le case di mattoni bruciavano; fiammelle venute fuori non si sa come dalle stufe o dai bracieri, che divoravano i letti e chi vi dormiva, o che distruggevano in poche ore tutte le fatiche di esistenze presenti e passate.

E sarebbero rimasti lì i resti da piangere, lì, non spersi a far da cibo ai lupi o ai pesci. Neri, sì, e irriconoscibili, ma sarebbero rimasti nel luogo che chiamavano casa, e che li aveva accolti e accuditi. Avrebbero avuto di che fare un funerale, di che riempire due casse e una buca al cimitero del borgo; l'intero vicinato si sarebbe raccolto accanto a loro dinnanzi a una tale, terribile sciagura. Sarebbe stata una morte santa, finalmente, con un prete accanto e l'acqua benedetta a spianare le porte - già aperte, di questo il Cecco era certo - del cielo.

Era tornato a sedersi, le gambe che tremavano appena, e aveva cercato lo sguardo del Bettino. Si erano fissati per un istante; negli occhi del figlio v'era un'aria a metà tra la paura e il coraggio, era un'espressione strana, mai vista prima. L'avevano cresciuto bene, quel figliolo. Non era mai stato abituato a mettere in discussione le decisioni del più anziano, il Cecco - il nonno, finché era vissuto, poi il babbo, e adesso lui stesso. Mai avrebbe osato dubitare di ciò che gli anziani gli avevano detto, e mai avrebbe pensato di delegare ad altri le decisioni da prendere, nemmeno a suo figlio. Eppure, in quel momento difficile era emersa l'indole del Bettino, tutta protesa verso il bene del podere e di chi vi viveva. E quella, doveva riconoscerlo, era stata una consolazione grande, ché per la prima volta si era reso conto che, alla sua morte, il suo posto sarebbe stato preso da un uomo giusto, da un uomo valido.

Gli aveva fatto un cenno col capo, al Bettino, ché capisse che nulla cambiava rispetto al patto che avevano stretto prima della cena. Il figlio aveva annuito gravemente, ed era tornato a fissarsi le mani. La Cecilia, ancora intenta a raccontare la novella ai bambini, s'era distratta un momento. S'erano tutti voltati verso di lei, colpiti dall'improvvisa interruzione di quel parlare ritmico di sottofondo, e l'avevano vista ancora più pallida, gli occhi puntati sul marito. Certo non le era sfuggito lo scambio tra il padre e il figlio, e pareva spaventata, più di quanto già non lo fosse.

«Vai avanti, mamma?», aveva domandato uno dei bambini.

E la Cecilia, d'istinto, aveva ripreso a narrare. Era una novella che tutti avevano già sentito - e la Cecilia certo non aveva l'abilità della Carola a raccontare -, ma era bello ascoltarla. Le si erano tutti stretti attorno, anche gli uomini, e il Cecco era rimasto da solo, al tavolo, a guardare la scena. E gli era parsa bella, intrisa di dolcezza; e avrebbe sorriso, se non avesse avuto quel peso sul cuore.

L'Uomo Di PagliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora