Capitolo 10

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Erano le sette del mattino quando la sveglia iniziò a suonare, ma non serviva perché ero sveglia già da parecchio tempo. Spensi l'allarme e mi rigirai nel letto cercando una posizione migliore. Erano passate due settimane dal massacro avvenuto nel bosco ed erano due settimane che non vedevo Derek. Al solo pensiero di lui che piangeva sopra il corpo esanime di sua madre, mi si chiuse la gola dal dolore.
Mi rannicchiai sotto le coperte, mentre sentii provenire dalla finestra un flebile ticchettio: aveva iniziato a piovere.
Presi il cellulare e controllai se mi fossero arrivati dei messaggi. Niente... Desideravo stargli vicino come lui lo era stato con me quando era morto mio padre, ma non me lo permetteva. Mi aveva chiesto tempo, tempo per noi due e io ero stata propositiva nel darglielo, ma più i giorni passavano più mi rendevo conto che non riuscivo a sostenere l'attesa, ma dovevo farlo perché lui era stato così paziente con me. Urlai nel cuscino per la disperazione e l'impotenza.
Mi vestii in tutta fretta e arrivai prestissimo davanti al liceo. C'ero solo io nel parcheggio. Ero seduta nel mio pick up ad ascoltare la pioggia cadere incessante sul mio mondo. Guardai nuovamente il cellulare e annegai nello sconforto. Aprii la chat tra me e Derek e rilessi le vecchie conversazioni e le varie registrazioni audio, così da non dimenticarmi la sua voce e il motivo per cui lo amavo. Scorrendo la chat, arrivai alla nostra ultima conversazione che risaliva a due giorni dopo dall'accaduto.
"Amore, ti ho chiamato più volte ma non mi rispondi. Lo so che è una domanda stupida ma come stai?", scrissi io.
"Mi ci vorrà del tempo per stare meglio", rispose lui.
"Vi va se vengo a trovarvi? Non fa bene l'isolamento, l'ho provato su me stessa...", domandai.
"Siamo molto stanchi, sarebbe meglio di no".
"Ok... Allora ci vediamo domani al funerale".
"In realtà mi sono dimenticato di dirti che sarebbe meglio che non venissi, in molti ti colpevolizzano per quello che sta accadendo al branco", affermò. Rileggere quel messaggio mi fece di nuovo male. Gli occhi mi si appannarono per la tristezza. Battei ripetutamente le ciglia per scacciare via le lacrime.
"Tu non lo pensi, giusto?", chiesi preoccupata.
"No... ma sarebbe meglio che non ti presentassi".
"Ok.", risposi solamente. Avrei voluto dirgli che a me non importava niente dei giudizi altrui e che forse era lui a non volermi, ma non ebbi la forza di scrivere nulla.
Due giorni dopo gli messaggiai ancora io.
"Amore, come stai oggi? Com'è andata ieri? Ti andrebbe se venissi a trovarti?".
"Roxanne, ho bisogno di tempo per me stesso e tutte queste domande non mi facilitano il processo di guarigione. Ho bisogno di stare da solo, credo ci dovremmo prendere una pausa...", mise nero su bianco. Le lacrime riaffiorarono insieme ad un turbinio di emozioni.
"Se vuoi non ti scrivo più, sarai tu a farlo quando ti sentirai pronto", scrissi cercando di venirgli in contro.
"Ok, ti scriverò io". Quello fu l'ultimo messaggio che ricevetti e io aspettavo, ma ogni volta che leggevo la nostra ultima conversazione mi veniva una sorta di orticaria. Avevo una gran voglia di scrivergli ma non potevo, perciò chiusi il telefono e lo lanciai sul sedile del passeggero. Mi misi le mani tra i capelli e rimasi immobile a contemplare la pioggia che continuava a cadere imperterrita su Oldwood.
Le macchine iniziarono ad arrivare e il parcheggio cominciò ad affollarsi di studenti e professori.
Mi asciugai le lacrime e poi mi guardai nello specchietto retrovisore per controllare che non si capisse che avessi pianto, ma i miei occhi mi tradivano.
Mi trascinai a lezione di storia cercando di non rimuginare sui miei problemi, ma era quasi impossibile. Non facevo altro che pensare a lui...
Non riuscii a trattenermi e guardai il cellulare sperando in una sua risposta.
-Ford, la sto forse annoiando?-, disse il professor Chávez. Mi irrigidii all'istante e nascosi il telefono nell'astuccio.
-N-no, mi scusi-, dissi presa in contropiede.
-Il telefonino, grazie-, disse tendendo la mano verso di me. Presi il cellulare e glielo consegnai con la testa bassa per la vergogna. Tutti iniziarono a fissarmi e alcuni cominciarono a parlottare tra di loro. June mi guardò stranita dal mio comportamento.
-Questo lo potrai andare a prendere dal consulente scolastico al termine delle lezioni-, sentenziò agitando il telefono in aria, come se stesse facendo la ramanzina anche a lui. Non appena capii che dovevo andare a ritirarlo da Tyrone, mi salì la rabbia. Avevo fatto di tutto per non stare con lui da sola e ora dovevo andare nel suo ufficio per un tête-à-tête. Alzai gli occhi al cielo e rimasi in ascolto del mio professore, cercando di scacciare dalla mia testa quell'orticaria al cervello che mi diceva di accertarmi se Derek avesse risposto o meno.
Uscii dall'aula alquanto contrariata e mi diressi al mio armadietto, che aprii con violenza, facendolo sbattere. I ragazzi nel corridoio si girarono incuriositi nella mia direzione.
Misi via il mio libro di storia e presi quello di biologia.
Chiusi l'armadietto e dietro ci trovai June con un'espressione di compassione.
-Che c'è?-, chiesi allo stremo.
-Vedrai che ti chiamerà-, disse mettendomi una mano sulla spalla -e se non lo farà, lo vado a prendere a calci nel sedere- mi abbracciò con affetto. Una lacrima scivolò calda dal mio viso, finendo sulla sua camicetta.

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