Capitolo 2

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La tranquillità ha vita breve, soprattutto in una vita dedicata allo sport come la mia. Due stagioni con il Rovigo me l'avevano dimostrato, così come la fama che il mio talento mi procurava.

Se la mia vita in partenza tranquilla fu sconvolta da novità di ogni genere: grandi feste in prive, champagne a volontà, droghe e ragazze a piacimento. Ogni mio punto di riferimento era sballato, così come me.

Si sa però che le amicizie legate ai soldi e al successo non sono durature, già sono complicate quelle basate sull'affetto.

Mi ricordo come se fosse ieri, quel maledettissimo 13 marzo. Era un sabato mattina, quel giorno avevo deciso di tornare a casa, mi mancavano i miei genitori, ma soprattutto la mia sorellina minore, inoltre proprio quel giorno avremmo giocato contro la mia vecchia squadra: il Mogliano Vincente.

Era una giornata particolarmente fredda, l'aria sferzava il mio viso arrossato. Ero solito andare a correre tutte le mattine, non feci alcuna variazione al mio programma, mi aiutava a scaricare lo stress della settimana ma soprattutto a entrare nel giusto atteggiamento per le partite.

Ripercorrersi tutte le strade fatte da bambino, sapevo orientarmi anche ad occhi chiusi, quel giorno però un gran mal di testa mi tartassava, avevo già preso due antidolorifici e non avrei potuto prenderne un terzo in un periodo così ravvicinato.

Mi fermai per il dolore, iniziai a vedere male, ma poi così come era sparita la vista tornò, mi accorsi di non riconoscere la strada. Dove mi trovavo? Come ci ero arrivato lì? Ma soprattutto da che parte dovevo andare per tornare a casa. Entrai nel panico, il mio senso dell'orientamento non mi aveva mai abbandonato, mi sentivo perso come un bambino, non avevo il telefono con me e questo mi fece preoccupare ancora di più.

Feci un respiro profondo e, cercando di fare mente locale, decisi di tornare sui miei passi. Camminai lentamente, piegato in due dai dolori, una semplice influenza mi ripetevo, ma una brutta sensazione si faceva largo dentro di me infilandosi dovunque.

Riuscii ad arrivare a casa, distrutto come non mai, gli occhi avevano incominciato a lacrimare e niente li era riuscito a calmarli. Attribuii il problema alla concentrazione di smog nell'aria, era un bel po' che non pioveva.

Mangiai poco a pranzo, perché una forte nausea mi aveva fatto passare la fame. Finito di pranzare guardai l'orologio e mi accorsi che mancavano ancora diverse ore alla partita, decisi, dunque, di provare a dormire. Inutile dire che non ci riuscì, continuavo a svegliarmi inquieto, la sensazione non passava, anzi si acuiva sempre più.

Non potendo saltare la partita, vista la sua importanza e la mia in quanto giocatore fondamentale, mi recai al campo all'ora prestabilita. Iniziammo un riscaldamento abbastanza tranquillo, che per me fu devastante, vidi lo stadio riempirsi piano piano.

«Vai, Seba!»

Sentii la sua vocina inconfondibile e mi girai verso gli spalti più vicini a me, salutando, così la mia dolce sorellina.

Mi recai con la squadra negli spogliatoi per indossare la divisa da gioco e per il discorso di incoraggiamento del coach. Togliere la maglia da riscaldamento e indossare quella da partita mi procurava una stanchezza allucinante.

«Bene ragazzi, vi voglio carichi, la partita è una bazzecola, mi aspetto comunque il massimo da voi. Sono stato chiaro?»

«Si coach» urlammo in coro,

«Bene allora andiamo fuori e spacchiamo qualche culo!», detto ciò uscimmo dallo spogliatoio ed entrammo in campo.

Bianco-blu contro verde, Mogliano contro Rovigo.

Le mie condizioni fisiche lasciavano a desiderare parecchio, ma nonostante ciò rimasi in campo incurante delle proteste dell'allenatore, il primo tempo filò tutto abbastanza liscio, fu nel secondo tempo che inizia ad avere dei peggioramenti.

Parità, inizio secondo tempo, parte la prima azione, mi butto nella mischia, qualcosa non va. Inizio a respirare male, la vista si appanna, il corpo cede alla paura, l'angoscia aumenta...

Buio.

"Il buio. Maledetto buio. Aveva l'impressione di esserci sepolto vivo. Murato..." scriveva così Stephen King nel libro "La lunga marcia" e io non potevo che esserne d'accordo.

L'oscurità mi circondava, decisi di non combattere, ero stanco, molto, mi abbandonai così al suo tepore.

Non seppi dire con certezza se fossi sveglio o no, percepivo un forte odore di disinfettanti, quindi supposi di essere in qualche stanza dell'ospedale. Non ricordavo bene cosa fosse successo eppure, avevo i brividi al pensiero di essa.

Cercai di aprire gli occhi, mi era chiaro di essere sveglio, sentivo e capivo ogni parola che mia madre rivolgeva al medico presente nella stanza, non ci riuscì.

Con voce roca chiamai mia madre, sentii i suoni passi accorrere verso di me insieme a quelli di altre tre persone.

«Mamma, che è successo? Dove sono? Ma soprattutto perché non riesco ad aprire gli occhi?» chiesi parlando velocissimo a mia mamma.

Le mie mani insieme alla mia voce si dilettavano in una danza a chi tremolava di più. Il mio corpo rigido e irrequieto parlava più delle mie stesse parole.

Sentii mia madre abbracciarmi e sospirare prima di rispondermi.

La tragica notizia arrivò alle 18.45 di un freddo giorno di marzo: ero affetto da glaucoma giovanile, non sarei mai più tornato a vedere.


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