Glaucoma giovanile, un caso raro, un esperimento ecco cosa ero per i medici.
Un poveretto, uno sfortunato per la gente.
Un figlio malato, un peso per la mia famiglia.
Ma soprattutto un corpo vuoto per cui bisogna provare solo ribrezzo, per me.
Schifo, ecco cosa provavo nei miei confronti, tantissimo schifo. Un corpo giovane come il mio, mai piegato da niente, neanche dalla più grave delle malattie, aveva ceduto a una stupida regola della genetica.
Avevo perso tutto.
Niente più autonomia, niente piani per il futuro, niente feste.
Ero rovinato! La mia vita era rovinata e tutto questo a causa di mio padre, perché era ovvio che quel gene me lo avesse trasmesso lui!
Lui che mi aveva già rovinato la vita da bambino facendomi fare ciò che voleva, ora mi aveva anche rovinato il mio futuro!
La situazione in casa si poteva definire ghiacciata: non un'emozione positiva lambiva le nostre anime, tutti con l'ascia di guerra in mano pronti a scannarci.
I miei genitori litigavano tra loro molto spesso e mia sorella cercava rifugio in me, suo fratello maggiore, il suo eroe.
Ma come può essere un cieco l'eroe di qualcuno? Il fratello più bravo al mondo? Non si può. Per questo quando veniva da me non riusciva a trovare un luogo sereno dove non pensare, ma trovava un antro buio e freddo. Mentre la vita fuori andava avanti la mia sembrava ferma sul pulsante stop. Passavo le mie giornate a vegetare sul letto pensando a quanto fosse inutile tutto ciò che avevo. Dei miei amici, dei miei compagni di squadra, del mio coach non si era visto nessuno, me lo sarei dovuto immaginare che i nostri rapporti erano basati solo sulla convenienza.
Visto l'assenza di ogni persona io mi sentivo ancora più inutile, tanto che non devi una piega quando i miei mi spostarono in una stanza più comoda per loro.
Avevo perso la voglia di vivere, l'idea di dovrei prendere un tablet o un computer con i comandi sonori, per poter leggere mi faceva schifo.
Abbandonai ogni cosa: social, internet, relazioni sociali, tutto ciò che potevo abbandonare.
Un giorno, in una di queste mattine ormai classiche da un mese a questa parte, mentre i miei litigavano al piano superiore, mia sorella entrò nella mia stanza. I suoi passi leggeri, degni di una brava ballerina, si avvicinarono al mio rifugio fatto di coperte e cuscini.
Sentii un fruscio dovuto allo spostamento delle lenzuola e dei piedi gelidi a contatto con la mia pelle.
Margherita non sarebbe mai cambiata: calzini e ciabatte erano inutili per i suoi piedi perennemente ghiacciati. Pure in estate il freddo aveva la meglio su di lei.
«Fratellone, so che non hai voglia di parlarmi, in realtà tu non hai
voglia di parlare con nessuno, forse non parli più neanche con te stesso, cosa che facevi spesso prima.» fece una pausa, me la immaginai arricciare il suo dolce nasino come era solita fare da bambina. I suoi dieci anni l'avevano cambiata, lei così diversa da me, mi considerava parte di lei.
«Uff, sto divagando come sempre, comunque volevo dirti che mi manchi...so che non hai più voglia di fare nulla, ma almeno parlare con me lo potresti fare.» si passò una mano davanti alla faccia arricciando le labbra in una faccia imbronciata. Lo seppi perché lo spostamento d'aria causato dal movimento mi aveva fatto capire il suo gesto, così come la sua abitudine a farlo quando contrariata. La cecità mi stava portando a sviluppare gli altri quattro sensi senza la mia reale volontà.
«Guarda che mi puoi anche rispondere, io non sono mamma e papà, sono tua sorella! La tua principessa! Quindi ora apri quella bocca e parlami!» mi ordinò.
Anche questo tentativo andò a vuoto, parlare mi risultava difficile così come alzarmi e camminare.
Sentii le coperte strapparsi violentemente via dal mio corpo e dei piedi atterrare velocemente e duramente sul tappeto. La maniglia cigolante si abbassò e mia sorella poco prima di uscire mi rivolse le sue ultime parole della giornata: «Anche se tu hai perso la vista non significa che tu sia incapace di volermi bene, ma soprattutto non significa che tu non sei più il mio eroe... Lo resterai sempre anche se diventerai paralitico, ma ora alzati da quel letto e comportati da persona matura e combattiva, ho bisogno di te. Non fare il codardo proprio ora» detto ciò la porta sbatté.
Rimanere a letto era la cosa più facile e il piano più concreto per il mio futuro. Fu per questo che ignorai le parole di mia sorella e rimasi dov'ero.
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Luce oltre i miei occhi
General FictionLa pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a sé stesso riguardo a ciò che ha visto. (Pablo Picasso) Cover Credits: @skadegladje