Il sottofondo musicale dei Muse accompagnava le mie giornate, ero stanco di cosa ero diventato, ma non ero in grado di dare una svolta.
Mi mancavano le forze, non avevo un motivo.
Un giorno mia madre, stanca del mio comportamento, entrò come una furia in camera mia.
Mi fece lavare, vestire e mi trascinò in macchina.
Nella cittadina vicina al nostro piccolo paesino veneto, si stava svolgendo una mostra d'arte. Ne ero venuto a conoscenza mesi prima leggendo un giornale, ma non mi ero molto interessato della cosa, poiché l'arte non era una mia passione.
Scendemmo dalla macchina, io con quel poco che avevo compreso, e, sì, eravamo proprio lì, all'installazione.
Non capivo la scelta di portare un cieco a una mostra d'arte, non potevo vedere i colori, i soggetti, niente.
Inutile. Ecco che cos'era questa idea, un'inutile stupidaggine.
Entrammo e un'ondata di emozioni positive mi travolse, l'aria mi mancò, respirai a pieni polmoni.
Fu come ritornare a vivere, mi sentii rinato!
Un istante, un unico istante, che però mi cambiò la vita.
La mostra era interattiva, i quadri di Van Gogh riempivano ogni spazio disponibile.
Fu un'esplosione di colore, pennellate su pennellate, particolari su particolari.
Riuscivo a vedere ogni cosa, i miei occhi stanchi e morti sembravano vivi e caratterizzati da una fortissima energia.
Le opere mi catturarono nella trama della loro tela, rendendomi dipendente dal loro potere, dalla loro bellezza.
Una marea di sensazioni si rovesciarono sul mio corpo stanco e provato dagli eventi subito.
Mi incantai a guardare i girasoli, mi persi nei meandri della notte stellata.
Se aver perso il piacere di vedere mi aveva fatto cadere in una forte depressione, aver trovato l'arte mi aveva risollevato.
Un miracolo? Non lo so.
Tornai a casa raggiante, tanto che mio padre e mia sorella rimasero sorpresi dal mio cambiamento.
Da quell'istante iniziò la mia rinascita.
Con gli ausili in mio possesso cominciai la mia formazione artistica. Feci avanti e indietro tra le biblioteche, imparai l'alfabeto di Braille e mi procurai audio-libri. Trovai cataloghi e mi informai a riguardo di nuove installazioni artistiche. Feci avanti indietro tra le mostre di Courbet, Monet, Chagall e altri artisti. Era come una droga, ne volevo sempre di più, era come acqua per un assettato nel deserto, come cibo per un affamato come pioggia per i campi aridi, era vita.
La mia passione divenne così grande che decisi di cercare un insegnante, un pittore, che mi insegnasse a cogliere il dono della vita tramite il colore, tramite l'anima.
Non fu semplice, molti non vollero accettare la mia cecità, sembrava loro un ostacolo insormontabile, fino a quando non arrivò lui, Mastro Ascanio.
Uomo dalla voce roca, Ascanio si rivelò subito un ottimo insegnante.
Iniziammo dalla teoria, ma non fu la classica lezione su come tenere in mano un pennello o su come colorare, partimmo analizzando il concetto di realtà.
Cosa è la realtà per me? Come la vedo io la realtà? Come la voglio realizzare?
Per un lungo periodo non toccai un pennello, non riuscivo a definire il concetto di realtà, continuavo ad avere un foglio bianco e vuoto in testa.
Vedendo la mia incapacità, Ascanio decise di portarmi in un posto secondo lui utile per riflettere. Salimmo in macchina, i finestrini aperti lasciavano entrare un'aria salmastra man mano che ci avvicinavamo alla destinazione.
Arrivammo in un luogo marino, forse una spiaggia, il rumore delle onde che si infrangevano sulla battigia avevano un effetto rilassante.
Mi feci guidare, conoscevo quell'uomo da poco eppure sapevo e sentivo che potevo fidarmi. Ad un certo punto fui certo mi tolsi le scarpe, quasi, tutte piene di sabbia, e mi sedetti a terra. Inspirai piano e, con timore di infrangere la pace creata, chiesi: «Dove siamo Maestro?». Non mi rispose subito, poi però appena lo fece mi sorprese con le sue parole: «Ma come, non riconosci questo posto? Eppure, dovresti...».
Non capivo, dove eravamo? Perché mi rispondeva senza rispondermi?
Inspirai a pieni polmoni e gli ridomandai: «Dove siamo Maestro?». Non mi degnò di una risposta neanche quella volta.
Stanco sbuffai, cercai di alzarmi da terra e maledissi di aver perso la vista, ogni cosa non faceva altro che ricordarmi il brutto gioco che il destino aveva avuto in serbo per me. Ero in procinto di girarmi e dirigermi verso una meta a me sconosciuta quando si decise finalmente a parlare: «Ci sei venuto da bambino, hai frequentato questo posto quando facevi parte della squadra di rugby, siamo nel luogo in cui tu ti sentivi in pace con te stesso, siamo a Sottomarina».
Buio non riuscivo a vedere altro. Mi scese una lacrima. Volevo vedere, volevo godermi quelle bellissime onde infrangersi, volevo vedere i colori.
Finché non arrivò la consapevolezza: non vedevo i colori? Bene li avrei immaginati!
Un sorriso si dipinse sulle mie labbra, avevo capito cosa voleva farmi comprendere il mio maestro.
«Allora, Sebastiano, cos'è la realtà per te?»
«È vedere questo mare così calmo per l'assenza del vento, il verde si mischia al rosa creando piccole sfumature che risaltano agli occhi di ogni individuo. Sono quelle piccole sfumature che permettono al mare di distinguersi dal cielo, così limpido e pulito. È la presenza di quei gabbiani appoggiati su quel cartello che indica il limite delle acque sicure. Sono come delle vedette che ti osservano pronte a rimproverarti se solo lo oltrepassi».
Sentii un fruscio e successivamente dei passi, un movimento alla mia destra mi fece voltare.
«Ciò che vedi è la realtà?»
«Si, maestro, ciò che vedo è la mia realtà».
Una mano prese la mia, con un delicato movimento mi fece segno di alzarmi e lentamente ci avviammo verso la strada che conduceva alla macchina.
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Luce oltre i miei occhi
General FictionLa pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a sé stesso riguardo a ciò che ha visto. (Pablo Picasso) Cover Credits: @skadegladje