Il ritorno

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Alle sei in punto il cellulare suonò. Erica spense la sveglia e si alzò, distrutta dalle poche ore di sonno. Scese per tostare un paio di fette di pane e preparare un caffè solubile. Trovò Finn già in piedi ad attenderla, indaffarato a cucinare. Ci mise qualche istante a capire che le stava preparando la colazione irlandese. Funghi, salsicce e pancetta friggevano sul fornello, mentre in un pentolino stava bollendo dell'acqua con aceto. Cosa diamine stava preparando?
Quando si sedette a tavola, fu servita come la migliore delle clienti. Grazie a Finn probabilmente avrebbe tirato dritto senza cibo fino a cena. Era già sazia quando Finn arrivò con un piatto che non aveva mai visto. Sembrava un uovo in camicia, adagiato su una fetta di pancetta con maionese, il tutto su un letto di pane tostato. «Uova alla Benedict» disse Finn, vedendo la sua aria interrogativa. «Quella che vedi sopra è salsa olandese». Sembrava orgoglioso del suo piatto. «Questa è una prova» aggiunse «vorrei aggiungerlo al menù». Quell'uomo non smetteva mai di stupirla. Erica assaggiò, concentrandosi sulla miscellanea di sapori completamente nuovi per lei. Era delizioso. Gli fece i complimenti, era la cosa più buona che avesse mai mangiato.
Quando si ritrovò all'esterno della casa, riguardò la facciata cercando di imprimersi nella mente ogni dettaglio. Non voleva dimenticare nulla di ciò che aveva visto in quel viaggio. Abbracciò Finn, e raggiunse il taxi che l'attendeva in centro. Connor sembrava essere appena sceso dal letto apposta per lei. In effetti, continuava a scordare che, nonostante il sole si alzasse incredibilmente presto, solitamente gli irlandesi non erano attivi prima delle dieci. Negozi, uffici, scuole, in quel paese tutti sembravano prendere la vita con estrema calma.
Addio, Brian. Addio per sempre, si disse seduta sull'aereo, ormai lontana dalla terra ferma.
Si ritrovò la stessa hostess dell'andata, con il suo sorriso smagliante, a servirle il caffè sull'aereo. Questa volta sapeva di dover attendere dieci minuti abbondanti prima di poterlo consumare, per non ustionarsi. E a quella brodaglia ormai si era abituata. Non ricordava più l'aroma intenso dell'espresso, le sembravano passati anni. Non ricordava più molte cose, pensò guardando in basso il mondo farsi piccolo.
Sua madre l'attendeva in parcheggio, appisolata in macchina con la radio accesa. Si svegliò di soprassalto con il cuore in gola, quando sentì il baule aprirsi alle sue spalle. «Mi hai spaventato a morte» disse mentre abbracciava la figlia. «Spero che ti sia divertita. In negozio è stato un casino, senza di te». Erica non voleva parlare di lavoro, non ancora. Aveva bisogno di qualche ora di decompressione. Si addormentò sul sedile del passeggero, e quando aprì gli occhi, erano ormai in centro a Sanremo. Entrarono nel cortile e si avviarono verso il portone. Dal balcone la nonna le salutò con una mano, mentre con l'altra annaffiava le sue piante. Finalmente in cucina, Erica mangiò dell'insalata di pasta, raccontando le curiosità principali della sua avventura all'estero.
«Stai dicendo sul serio che quella gente frigge la carne di mattina?» la nonna aveva un espressione disgustata che Erica trovò particolarmente buffa. «E a pranzo allora, cosa mangiano?» Erica non ci aveva fatto caso, ma avendo provato di persona, andò per supposizioni. «Credo che lo saltino, nonna, il pranzo» tirò fuori dalla valigia le fotografie di Flora, e le diede alle due donne. Entrambe, in assoluto silenzio, guardarono quelle vecchie immagini, visibilmente emozionate. «Non ricordo questa giornata». La madre mostrò due bambine sedute in un enorme campo di lavanda. La nonna rimase in silenzio per qualche minuto, e poi parlò: «Eravamo in Provenza. Tuo padre aveva deciso di farci fare una vacanza in un vecchio cascinale dove creavano saponi naturali. Mi ricordo ancora i profumi nell'aria, gli aromi». Erica osservò incuriosita. Dietro alle due bambine, con un cesto di vimini, un uomo stava raccogliendo dei fiori. Prese coscienza solo in quell'istante di quanto fosse mancato veramente il nonno nella sua vita. Non aveva avuto la possibilità conoscerlo, e come se non bastasse, non ricordava nulla nemmeno di suo padre. Mostrò l'anello, raccontandone la storia, e attese la loro reazione. Successe esattamente quello che si era aspettata, entrambe rimasero allibite all'idea che si potesse credere seriamente all'esistenza delle fate.
Erica faticò a riprendere i ritmi lavorativi. All'alba si ritrovò a sfornare focacce alle cipolle e torte salate, come ogni estate, per i clienti intenti a raggiungere le spiagge di prima mattina. Adorava il profumo del pane appena cotto che si univa all'amaro dell'olio, la rendeva di buon umore. Luglio era alle porte e con esso l'alta stagione, ma, fortunatamente, mancava almeno una settimana all'inizio del lavoro più duro. La ragazza approfittò del tempo libero che rimaneva per nuotare nel suo mare, tiepido e accogliente, e per ascoltare i riccioli delle onde che si riversavano timidamente sulla spiaggia, con un buon libro come unica compagnia. Negli anni aveva imparato a non ascoltare il chiasso dei bagnanti, estraniandosi completamente, come se il mondo fuori non esistesse. Riusciva a passare ore immersa nella lettura, mentre anziane signore con la pelle bruciacchiata dal sole emanavano un forte odore di crema solare passandole a un palmo dal naso. La ragazza si immaginò come sarebbe stato portare Brian a visitare i luoghi più caratteristici della sua terra, da Bajardo alle Cinque Terre. Se solo avesse potuto, gli avrebbe fatto assaggiare ogni piccola specialità conosciuta, dalle olive taggiasche della Valle Argentina alle acciughe di Monterosso. Purtroppo però, lui non era lì, e lei doveva trovate il modo di andare avanti con la sua vita.
Dopo qualche giorno di immersione nel lavoro e lunghe passeggiate sul lungomare in solitudine, Erica decise di occupare ulteriormente il suo tempo iscrivendosi a un corso di cucina etnica. Si accorse ben presto, però, che per quanto si impegnasse a tornare alla normalità, qualcosa di lei era rimasto in quelle colline verde smeraldo. Qualcosa che non le sarebbe stato restituito, né ora né mai. Se esisteva il mal d'Irlanda, esattamente come il mal d'Africa, di certo lei ne era afflitta. «Non mi hai ancora raccontato del tuo viaggio» disse Silvia, versando dell'aceto sul riso bollito. La ragazza si era iscritta allo stesso corso di cucina che aveva scelto Erica. «Avevi ragione, l'Irlanda è bellissima» rispose liquidando subito il discorso. Non era in vena di chiacchierare quella sera. Lo chef giapponese lanciò a entrambe un'occhiata di fuoco, stavano disturbando la classe. «Passa a trovarmi al bar, uno di questi giorni, ti offro un aperitivo» aggiunse l'amica sottovoce. Erica cercò di arrotolare al meglio l'alga inumidita, usando il tappetino di bambù, e tagliò con un coltello affilato delle fette spesse due dita. Il risultato era a malapena dignitoso. «Non credo di essere portata per il sushi» disse gustandosi il suo primo vermentino da quando era tornata in città, la sera seguente. «Se è per questo, nemmeno io». Silvia le passò un tagliere con del lardo su pane toscano. La ragazza ringraziò entusiasta. Era da qualche tempo che non sentiva sciogliersi in bocca quell'inconfondibile gusto cremoso e pepato. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter accompagnare Brian nella scoperta dei sapori tutti italiani. Ma lui non c'era, e non solo, probabilmente non l'avrebbe mai più rivisto. «Ehi, mi hai sentito?» l'amica stava schioccando le dita davanti ai suoi occhi. «Lo prendo come un sì» rispose ermetica. «Sì cosa, Silvia?» il suo tono era leggermente spazientito. «Ti ho chiesto se hai conosciuto qualche tipo interessante». Fece l'occhiolino e tornò a servire gli altri tavoli.
Quel ragazzo era qualcosa di più di un tipo interessante. Se solo l'avesse potuto vedere, avrebbe capito. Quale ragazzo poteva mai sostituire Brian, l'unico in grado di raccontarle di balli fatati e farla sognare con un violino? I suoi lunghi capelli corvini e le mani perfette, erano dettagli impressi nella mente che facevano soffrire. Persino sua madre si accorse che quel viaggio l'aveva cambiata profondamente. Spesso le parlava, nei momenti in cui il negozio era vuoto, ma la ragazza sembrava vivere fra le nuvole costantemente.
Così l'estate passò, sfornando focacce e bevendo sciroppo alla menta sulla sdraio in balcone, con la nonna che annaffiava il suo basilico. A settembre l'afa svanì, insieme agli ultimi turisti, per lo più pensionati, ed Erica poté finalmente rallentare il ritmo di lavoro. Mise i suoi scarponi da montagna e raggiunse i sentieri impervi di Triora. Camminò sotto le volte umide, osservò le case abbandonate, tra i ciottoli del centro storico, comprò le ultime bottiglie di olio extravergine disponibili della stagione, prima che iniziasse la nuova spremitura, e cercò di godersi il tempo libero, escludendo il più possibile i pensieri su Flora, l'Irlanda e soprattutto Brian.
«In quell'isola fatata ho lasciato un pezzo di cuore» disse un giorno a Silvia, appoggiata al bancone del bar. L'amica non sapeva cosa dire per consolarla. «Capisco quello che stai provando. Si chiama "mal d'Irlanda", ed è qualcosa che conoscono solo le persone che sono entrate in contatto con quella terra, che hanno sentito il suo battito. Ti do un consiglio. Forse è ora che dimentichi, che dimentichi tutto. Ricordare, se ho capito bene, ti fa soffrire» ciò che diceva era sensato.
Già, pensò Erica rassegnata, era ora di voltare pagina.
«Dovresti trovarti un fidanzato» esclamò Silvia, portando due chinotti e sedendosi con lei in veranda. «Sul serio, Erica». La ragazza sembrava convinta di sapere cosa fosse giusto per lei. L'amica, con tutte le buone intenzioni del mondo, una sera organizzò un appuntamento al buio. Erica si ritrovò seduta in una birreria del centro, di fronte a un ragazzo con il pizzetto e la t-shirt dei Metallica, a sentire racconti di giochi di ruolo e ricostruzione storica. Mentre Fabio, questo il suo nome, parlava senza badare alla sua reale attenzione, la ragazza si ritrovò, complice l'arredamento di legno scuro del locale, a ricordare la piccola fisarmonica nelle mani di un vecchio irlandese, le ballate, la filastrocca. Come diceva? "Se il piccolo popolo un giorno vuoi trovare, nei boschi, nei laghi e nei mari tu devi cercare..." E poi, pensò, parlava di qualcosa riguardo a delle frittelle fatte con la schiuma di mare. Ironia della sorte, quel giorno dalla radio accesa del locale un pezzo italiano degli anni novanta faceva compagnia ai clienti, cantando poeticamente del cielo irlandese.
La serata fu un completo disastro, e da quel giorno, Erica decise che ciò che era giusto o meno per la sua vita, l'avrebbe deciso da sola. Il fato le diede una mano quando fece recapitare una lettera a suo nome, tirando nuovamente i fili del destino. Finn le scriveva di aver avuto una stagione perfetta, e che finalmente si stava godendo il meritato riposo. Non era però per raccontarle del suo lavoro che aveva scritto quella lettera. Voleva invitarla a un evento. La ragazza si fece cadere letteralmente sul divano, incredula di ciò che stava leggendo. Finn e Grace si stavano per sposare. E lei era invitata alle nozze. Sarebbe tornata sull'isola, molto presto.

Amore in IrlandaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora