II.

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Note d'autrice: oggi ho deciso di fare uno strappo alle regole e pubblicare contemporaneamente il secondo e il terzo capitolo, dal momento che mercoledì prossimo sono in vacanza. Non volevo che una settimana fosse "vuota" di contenuti, diciamo così!
Spero vi piacciano.
Buona lettura e buone vacanze anche a voi ♡





II.



Matilde attraversò Piazza Medaglie d'Oro con il ticchettio dei tacchi dei propri stivali nelle orecchie. Superò le scale della metropolitana che davano sulla Deutsche Bank, attraversò e poi svoltò in via Giotto, che percorse fino alla fine. All'angolo c'era il palazzo in cui abitava. Cinque piani, color giallo chiaro, prodotto dell'edilizia anni Settanta insieme ai palazzi circostanti. Gli interni del numero Nove però erano stati rimodernati di recente.

Nell'androne, il portiere la salutò dal suo gabbiotto: «Buonasera, signorina Navarra. Prima è passata sua sorella, le ha lasciato questa busta.»

Era un ampio bustone di tela che conteneva frutta e verdura. Ilenia aveva fatto la spesa anche per lei.

Ringraziò il portiere, uscì nel cortile ed entrò nella scala A, sulla sinistra. Prese l'ascensore e salì all'ultimo piano.

Quando entrò nel suo appartamento, il più grande del palazzo perché erano due appartamenti messi assieme, venne quasi investita da un Simba più festoso che mai. Era felice di rivederla, scodinzolava con la lingua di fuori.

«Ehi» gli disse con una carezza sul collo. «Ti sono mancata?»

Il bastardino, di ormai sette anni, le rispose con un abbaio.

Era l'unica presenza in quella casa, oltre a lei. E probabilmente le voleva bene più del resto della sua famiglia. Era l'unico che non l'aveva abbandonata.

Sua madre e suo padre, divorziati e risposati. Ilenia, ormai stabile a casa del suo fidanzato. Ogni tanto le faceva la spesa. O le mandava messaggi su whatsapp.

Matilde posò il bustone di tela sul tavolo in cucina. Era tutto ancora buio, non aveva alzato le persiane. Una casa buia le si addiceva di più. Ma c'erano lo stesso troppe stanze. Quattro camere da letto, e solo una occupata.

Simba le gironzolò attorno per un po', ma poi, non ricevendo alcuna attenzione particolare da lei, si allontanò verso il salone.

Matilde andò in camera sua e si spogliò. Via la camicetta bianca con le spalle scoperte e le maniche a sbuffo, via gli stivali e il jeans nero, via la biancheria. Si stese nuda sul letto, nella penombra. Il materasso e le lenzuola pulite la assorbirono insieme al suo senso di inutilità.

La sua camera, in quella non-luce, non sembrava nemmeno un luogo conosciuto. L'aria era densa, avrebbe dovuto aprire la finestra.

Ma non si alzò.

Pensò ai giorni in cui se ne stava stesa su quel letto con Francesco. Anche madidi di sudore, se ne stavano abbracciati. Due figure snelle, flessuose, nel disegno di una sola se viste dall'alto. Matilde affondava le mani tra i suoi capelli mossi, neri, e gli baciava la punta del naso. Mai, in quel tempo così lontano, avrebbe pensato di fargli del male. Di volergliene fare.

Non riuscì a non piangere, neanche quella volta.

Pianse a lungo. Mascara ed eyeliner le colarono sulle guance. Non si fermò nemmeno quando la suoneria del cellulare le segnalò l'arrivo di un messaggio.

Lo lesse solo dopo un'oretta. Era di Yousef. Diceva: «Pensaci, ti prego.»
 
Si chiese se anche lui piangesse mai in quel modo così miserevole.

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