02 | Che stupido

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( domenica, 19 maggio 1985 )

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Riesco a sentire le gambe pesanti che nascondo sotto al tavolo, la mano sinistra mi regge il capo, mentre, a testa china, continuo a spostare pezzetti di hamburger, decisamente troppo cotto, con la forchetta. La frangia mi ricade sul viso, evitando il contatto visivo con mia madre, seduta di fronte a me. Ho sempre odiato questo taglio di capelli che, imperterrita, ogni fine mese, tenta di sistemare con quelle forbici da cucina, ma chissà perché, in alcune situazioni si trasforma in un ottimo nascondiglio.

«Non hai molta fame?» mi chiede, cercando di costruire una conversazione che io, chiaramente, non ho neanche voglia di iniziare. Indossa ancora la divisa lavorativa blu con un pezzo di stoffa rattoppato in alto a sinistra. Joyce. I capelli sono disordinati e gli occhi marroni mi osservano. Mia madre corruga la fronte, ancora in attesa di una risposta.

«Will...» si mette una mano sulla fronte, spostandosi i capelli e successivamente si sporge dal tavolo, in cerca di un contatto visivo. «... Sai che puoi dirmi qualsiasi cosa» aggiunge, abbozzando un tenero sorriso. Le voglio bene, le voglio veramente bene.

Sospiro e tenendo lo sguardo ancora fisso sul piatto, provo a tranquillizzarla «Mamma, sto bene» infilo un boccone in bocca, masticando lentamente. Diamine, apriti stomaco, per favore. Mia madre continua ad osservarmi, preoccupata. Non sono bravo a nascondere i miei stati d'animo, soprattutto davanti a lei, ci provo, inutilmente. Lo stomaco mi fa male, lascio la forchetta sul piatto e mi stringo la pancia con il braccio, sperando in tutti i modi che possa passare. Mi costringo a mangiare un altro boccone.

«Non sei stato bene con i tuoi amici, ieri?» mi chiede dopo qualche minuto di silenzio. A quel punto la mia forchetta si blocca a mezz'aria e il pezzo di carne cade sul piatto. Alzò finalmente il capo, gli occhi mi pizzicano, cerco di non piangere, non voglio che mi veda piangere. Scuoto il capo, rassegnato.

I miei amici mi avevano invitato nella cantina di Mike, riuniti in attesa della chiamata di Dustin dal campo estivo. Aveva promesso, l'ultima volta, che ci avrebbe chiamato alle 16:30 di quel venerdì, perciò ce ne stavamo in seminterrato, pronti per il nostro amico. Io mi sentivo a disagio, terribilmente, in mezzo a due coppiette. Solo. Lucas, Max, Mike ed Eleven erano seduti intorno al tavolo, mentre raccontavano aneddoti stupidi e ridevano di gusto. Lucas si teneva la pancia dal ridere mentre prendeva in giro Max, che di rimando si lamentava ad alta voce, tirandogli la maglietta per farlo smettere. Mike ed Eleven si divertivano nel guardarli.

In quel seminterrato, che tanto, in precedenza, mi aveva fatto sentire parte di qualcosa, apprezzato dai miei amici, ora mi sentivo un estraneo. Gli oggetti, tutto era rimasto intatto. Eccezione fatta per l'atmosfera. Il lampadario che emanava luce fioca era ancora lì, come il tavolo e le sedie in legno. I tre divanetti che davano sulle scale, in uno dei quali me ne stavo seduto io, affondando fra i cuscini e gli strati di coperte. Alla mia destra vi era un bersaglio del gioco delle frecce, quasi coperto da una lampada, per illuminare quella parte del seminterrato che il solo lampadario non riusciva a mostrare. Gli scaffali impolverati, pieni di cd, libri, una vecchia radio, un cestino coperto da un lenzuolo a quadri. Questo fu il primo posto in cui mi portò Mike, dopo avermi conosciuto la prima volta. Non c'erano ancora tutte quelle cianfrusaglie, si erano trasferiti da poco e la sua stanza non era ancora pronta, perciò passava i suoi pomeriggi qui. Con il passare del tempo si sentì sempre più a suo agio in questo seminterrato, isolato da tutti, che nella sua 'vera' stanza. Così mi invitò a giocare nel suo posto, con lui, e io fui così felice che una volta tornato a casa lo raccontai a tutti, perché Mike fu il mio primo amico.

Ritornai a prestare attenzione non appena sentii Mike ridere. Mi girai verso di lui e il mio cuore iniziò ad accelerare. Sorrideva, con quei suoi capelli neri, gonfi, le lentiggini messe in risalto dal colorito roseo delle sue guance. Indossava una camicia gialla, a righe, abbottonata fin sopra il colletto e i pantaloni grigi fino alla caviglia che mostravano le gambe lunghe e magre. Anche Eleven lo stava guardando, i capelli legati su con un nastro e un vestito colorato, l'espressione beata. Riflesso nei suoi occhi, il viso felice del suo fidanzato. Notai il braccio di Eleven muoversi, perciò mi sporsi un po' più a sinistra per poi accorgermi che aveva allungato la mano verso quella di Mike. Ripensai a quello che feci, qualche giorno prima e sentii un nodo allo stomaco.

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