13 | Riflessi e ricordi

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( Lunedì, 23 dicembre 1985 )

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Gli edifici e gli alberi scorrono veloci e sfuocati dal finestrino della macchina di Jonathan. Una lieve brezza arriva sulla mia fronte, scompigliandomi la frangia, mentre porgo lo sguardo fugace verso una donna con una valigetta blu che aspetta l'autobus sul ciglio della strada, con l'espressione in volto agitata. Tutto sembra improvvisamente più interessante del silenzio che regna all'interno, di rado interrotto dalle domande di mia madre. Lancio un'occhiata alla mia destra e scopro che anche Eleven sembra portare la sua attenzione al paesaggio che scorre attorno a lei. I capelli sono sciolti sulle spalle e indossa un vestito rosa carne che la copre fino alle ginocchia, lasciando il resto della pelle diafana scoperta. Un luccichio ai lati del viso attira la mia attenzione e noto due orecchini che dondolano, solleticando le sue guance. Sorrido, improvvisamente accorgendomi del suo riflesso sul vetro.

Eleven si sposta i capelli dietro le orecchie, deglutendo, quasi come se volesse buttar giù anche la sua agitazione. Le mani tornano con un tremito sulle sue gambe e, ad ogni buca, stringe il vestito fra le dita. Eleven scorge il suo riflesso fra gli edifici che scorrono e inclina il viso, per guardarsi meglio.

«El» sussurro scivolando sul sedile e avvicinandomi. Le spalle che si toccano e lo sguardo di Eleven che si posa sul mio viso «Stai bene, tranquilla»

Sul volto di Eleven compare un dolce sorriso e annuisce, come per convincere se stessa. Torno lentamente accanto al finestrino e cerco di regolare il respiro e allontanare la mente il più possibile. Mi concentro su ogni particolare che mi colpisce durante il tragitto, la signora in vestaglia che stende i panni, il lavoratore sotto il sole cocente con su un capellino blu sbiadito, il ragazzino con lo zaino che si accinge ad attraversare le strisce pedonali. Fingo che tutto sia più interessante dei pensieri, ai quali non riesco a dare ordine, che tumultuano nell'animo.
E all'improvviso, un viaggio che sembra durare ore, inizialmente, come l'attesa di rivederlo, ha il suo termine quando meno me l'aspetto, quando non sono ancora pronto e penso di aver ancora del tempo a disposizione.

«Siamo quasi arrivati ad Hawkins» afferma Jonathan con le mani serrate sul volante in una curva stretta. Mi lancia un'occhiata dallo specchietto retrovisore e io abbozzo un sorriso.
Il mio sguardo è attirato nuovamente dal finestrino, dove ricade il mio capo subito dopo. Dei vetri mi piace il fatto che confondano l'interno con l'esterno, ma quando si fa buio, cambio idea. Il riflesso assomiglia più ad un ritratto, non si vede più oltre, hai solo la tua figura che ti osserva, inerme. E non tutti sanno sostenerla.

Sfioro il finestrino con un dito ed ho il repentino desiderio di tornare indietro e cambiare l'andamento di quel ricordo, solo per pure egoismo. Un déjà vù. Ad un tratto, il riflesso del finestrino si incurva e ciò che osservo è il mio ritratto sulla superficie lucida di una bottiglia di vino, vuota.
Gli occhi velati da uno dei ricordi dell'estate ormai passata.

27 luglio 1985

Guardavo il mio riflesso nella bottiglia vuota di scotch, incredulo. L'avevamo finita veramente?
Quel ventisette luglio, la voce angosciata di Mike aveva risuonato per tutta la stanza, dal mio walkie-talkie e io mi ero affrettato a rispondere, preoccupato e ancora sporco di pittura. Nel giro di pochi minuti si era presentato a casa mia con uno zaino rosso fin troppo pesante, eccitato all'idea di mostrarmi il suo interno, ma solo in un posto sicuro, aveva precisato. Così, consapevole del fatto che fosse uno dei suoi tanti deliri, utilizzati per sviare al dolore dopo essere stato lasciato da Eleven da pochi giorni a quella parte, lo seguii, incapace di dir di no a chi più amavo.

Aveva ripetuto più volte di voler passare una giornata in mia compagnia, nel posto che più mi faceva sentire bene, inconsapevole del fatto che quello stesso luogo era anche la sede più ardente del mio dolore, ma non ebbi modo di mostrare riluttanza: Mike mi teneva per mano, diretto verso il fortino. Le sue dita strette fra le mie, pallide e ossute era tutto quello a cui la mia mente riusciva a pensare.

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