Capitolo 1 - L'inizio di ogni cosa

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Gli annunci in giapponese invadevano la hall dell'aeroporto di Narita. Migliaia di persone si muovevano in tutte le direzioni, seguendo attentamente le indicazioni dei grandi schermi digitali che informavano i passeggeri su arrivi e partenze di voli nazionali e internazionali. Osservare quella moltitudine di persone era come guardare un quadro animato: c'erano uomini e donne, bambini anche, di ogni nazionalità, ma prevalentemente giapponesi nel punto in cui si trovava. Lasciò vagare lo sguardo permettendo ad un debole sorriso di alleviare la tensione della mascella che era rimasta serrata per tutto il viaggio da New York. Non perché avesse paura di volare, non ne aveva affatto, bensì per ciò che si portava dentro e che sperava di curare in quel paese.

Non c'erano americani nel posto dove sarebbe andata, né alcuno che parlasse la sua lingua, tranne Rumiko. Cercava silenzio, distacco, un luogo tranquillo dove lasciarsi andare senza che qualcuno le dicesse che avrebbe dovuto riprendersi, che avrebbe dovuto ricominciare a vivere. Senza vedere gli occhi di sua madre pieni di compassione e di pietà né quelli dei suoi fratelli che non si arrendevano alla sua apatia.

- Eleanor! - il grido riecheggiò facendo voltare molti turisti, lei compresa. Una giapponese in jeans aderenti e cappotto con collo di pelliccia si sbracciava poco avanti. Non poté reprimere il sorriso che le affiorò sulle labbra né il groppo in gola che le chiuse lo stomaco. Sollevò stancamente una mano e lasciò andare il trolley per stringere l'amica in un abbraccio stentato e forzato.

- Ciao, Rumiko - la salutò con voce strozzata affondando il volto nei suoi capelli lunghi e neri che profumavano di violette.

L'aveva conosciuta sette anni prima a New York, durante un party. Non avevano amicizie in comune ed erano lì per caso. Si trovavano davanti al buffet, un signore sbadato aveva rovesciato un dolce alla crema macchiando il suo bellissimo vestito e la giapponese l'aveva aiutata a smacchiarlo in bagno. Rumiko andava spesso in America, si incontravano per fare shopping - lei faceva compere, Eleanor l'accompagnava e basta godendo della sua esuberanza - e si tenevano in contatto sui social network. Adesso sembrava che fosse l'unica persona in grado di darle ciò che cercava.

- È andato bene il viaggio? - le chiese immediatamente in inglese scostandosi dall'abbraccio e analizzandola da capo a piedi. Non le lasciò il tempo di rispondere, la prese per un gomito e la trascinò via sotto gli sguardi sospettosi di alcuni viaggiatori.

Eleanor avrebbe voluto prendere il trolley, ma quando si voltò verso la valigia solitaria, vide l'uomo. Indossava una divisa nera, guanti bianchi e un cappello, perfetto e serio come ogni giapponese. Fece solo un lieve inchino al suo indirizzo, prese la valigia e le seguì. Era ovvio, Rumiko era venuta con l'auto di suo padre che aveva autisti e chauffeur. Era un imprenditore facoltoso, acciai, se non ricordava male e questo aveva permesso a Rumiko di vivere una vita piena di ogni agio.

Seguì l'amica in silenzio finché raggiunsero l'auto. Era una Mercedes nera e lucida, se fosse stata in un altro momento della sua vita avrebbe sicuramente spalancato la bocca, invece entrò e si sedette accanto all'amica mentre l'autista metteva in moto e l'altro uomo caricava la valigia che conteneva i suoi unici averi.

- Allora, questo viaggio? - esplose di nuovo Rumiko scuotendola e sistemandosi i capelli.

- Tutto bene - rispose concisa Eleanor sbottonandosi l'ampio cappotto che aveva acquistato l'inverno precedente dopo essere ingrassata quasi trenta chili nei precedenti cinque anni. All'inizio non le era importato affatto, ma quando la sua salute aveva iniziato a risentirne pesantemente, era stata costretta a dar ragione a sua madre, che le aveva suggerito almeno di sistemare il suo fisico, se non voleva recuperare la sua mente.

Rumiko aveva insistito così tanto, offrendo la casa di suo padre come alloggio, che alla fine aveva ceduto, attaccata su tutti i fronti, più per sentirli smettere di parlare e dirle come vivere la sua vita, che perché credesse davvero che trasferirsi in Giappone avrebbe cambiato la sua situazione.

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