Prologo

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Roma, 14 settembre 2017

Il fatto, ecco, è che non immaginavo che Emma sarebbe sparita per davvero.
Non è che un giorno, uno come tanti nel Quartiere, con le sentinelle a controllare i confini e i tossici a bucarsi negli angoli bui, con i bambini a giocare tra i morti ammazzati, le siringhe e i lacci emostatici e le madri a gridare per dirgli che è pronto in tavola dai balconi scrostati dalla ruggine, con i ragazzi a rincorrere il pallone nel campo da calcio dietro l'oratorio e le ragazze a decidere con quale di questi sverginarsi, non è che un giorno di tre mesi dopo la morte di Italo Bianchi - il boss del Quartiere - la tua migliore amica di sempre lascia casa e marito congedandosi tramite un biglietto con su scritto "Goodbye Carmine, my darling. Addio". Così.

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Mi chiamo Letizia Finelli, e il mio nome ha origini latine: significa "portatrice di gioia", l'ha scelto mio padre nonostante il latino se lo ricordasse a malapena dalla scuola o dalla messa, in quanto era la lingua ufficiale di preghiere e funzioni fino al 1965.
Mio nonno paterno, un contadino siciliano di saldi principi, insistette affinché mio padre e i suoi fratelli studiassero, almeno fino alla terza media, perché sosteneva che con l'istruzione non si sarebbero fatti mettere i piedi in testa da nessuno; questo insegnamento è arrivato fino a me, anche se sinceramente non capisco a cosa mi sia servito studiare e laurearmi, se non sono nemmeno riuscita a indovinare quale malessere affliggesse Emma al punto da spingerla a scappare, come diciassette anni fa, quando fuggì a Londra, e come ha sempre fatto quando la sua quotidianità le andava troppo stretta.
Se lo sapesse mio nonno, ormai novantenne, verrebbe a piedi dalla Sicilia per dirmi che ero il disonore della famiglia, ma non ce ne sarebbe stato bisogno: a quello ci aveva sempre pensato mia madre.

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Sono nata nel settembre del 1981, tre mesi dopo Emma, ed entrambe siamo figlie di migranti, povera gente che ha lasciato l'Italia nel dopoguerra e ha fatto fortuna prima oltreoceano, a New York, e poi in Germania, a Berlino, prima ancora che abbattessero il Muro; una volta accumulati abbastanza soldi, hanno deciso di tornare in Italia all'inizio degli Anni Ottanta, quando il Quartiere aveva già alle spalle un ventennio di esistenza e una nomea brutta quanto la fame, ma ancora si credeva che avesse ampi margini di miglioramento: non avevano la più pallida idea che quel luogo era un viaggio di sola andata verso l'inferno, per chi si stabiliva a vivere nei casermoni, i grandi complessi abitativi a dieci piani in cui Emma e io siamo cresciute, praticamente appiccicate - i Ferranti stavano al terzo piano, noi al secondo.
La ginestra e il girasole, così ci chiamavano i Ferranti, i genitori di Emma, e così avevano imparato a chiamarci anche gli altri abitanti del Quartiere, per i nostri caratteri opposti: lei aveva mille grilli per la testa, nel senso che ogni tanto le veniva in mente qualcosa di pazzo che doveva assolutamente mettere in pratica, anche se significava mettere nei guai gli altri che trascinava - soprattutto me - come il girasole segue il suo astro di riferimento in ogni movimento che compie nell'arco dell'orizzonte; io ero più pacata e riflessiva, ma anche più stabile e costante nel portare a termine qualsiasi cosa, esattamente come fa la ginestra, che cresce nei luoghi desertici tipo le pendici dei vulcani, a dispetto del rischio di rimanere sommersa dalla lava di un'eruzione in corso, travolta da un destino ineluttabile.

La ginestra e il girasole [Saga del Quartiere Anceschi]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora