Capitolo 38

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Quell'estate non partii per Modica con la mia famiglia: avevo da studiare sia per il test d'ingresso a Lettere che per prendere la patente; passai luglio e agosto sui libri in compagnia di Viviana, l'unica che, come me, aveva deciso di proseguire gli studi dopo il liceo - voleva studiare Psicologia - e il mare lo vedemmo col binocolo: andavamo ad Ostia di tanto in tanto, in compagnia di Gabriele e Mario; a volte questi non c'era, passava il tempo con Caterina, anche lei indirizzata verso gli studi universitari alla facoltà di Economia e Commercio,  come il minore degli Altieri aveva fatto prima di lei; delle persone che conoscevo tra il Quartiere e il liceo, solo Irene sarebbe venuta nella mia stessa facoltà, voleva diventare insegnante: un bel colpo per suo padre, che la voleva nelle attività di famiglia insieme coi fratelli maggiori.
Almeno non sarei stata da sola, in quel nuovo salto nell'ignoto.

                                      ***

Anche perché la mia attenzione, in quei due mesi, fu in gran parte concentrata sugli sguardi strani, fugaci e maliziosi che si lanciavano Gabriele e Viviana: quando andavamo al mare, quando eravamo seduti ai tavoli del bar Martini, quando i fratelli Altieri ci venivano a trovare nella biblioteca della scuola; non sapevo come reagire a tutta quella storia: da una parte avevo capito ormai da molti anni di che pasta fosse fatto Gabriele, e perciò avevo smesso di essere gelosa; dall'altra, tuttavia, non potevo credere che gli fosse bastato tornare da Londra senza Emma per riversare le attenzioni sulla prima che capitava: infatti, nonostante fossimo cresciuti tutti appiccicati, tra i due i sentimenti non erano mai andati oltre l'amicizia.
Ma Gabriele era sempre stato sensibile al fascino femminile, ed esteticamente la nostra amica d'infanzia non era neanche male: aveva i capelli biondi mossi, gli occhi verdi, ed un carattere pacato, di quelli che non si distinguono molto nella miriade di caratteri esistenti nel mondo, ma che sicuramente non dava problemi. Non era Emma, per intenderci: lei la parola pacatezza non sapeva manco come si scriveva.
Per questo lei e Gabriele non sarebbero mai riusciti a stare insieme stabilmente: a lui serviva una scema, una bambolina da sfoggiare in società, a patto però che non osasse formarsi una propria opinione.

                                     ***

Il giorno in cui Irene ed io andammo a fare il test d'ingresso, avevamo preso il 105 fino al capolinea Termini, poi da lì la Linea B della metropolitana, scendendo alla fermata Policlinico, che si trovava nei pressi della facoltà di Medicina della Sapienza; noi scendemmo per Viale Regina Elena fino ad una delle entrate della città universitaria, dove si trovava la nostra futura facoltà.
Venimmo divisi per tre canali e smistati nelle varie aule del pianoterra: A-D, E-M, N-Z.
Aspettammo di entrare nei luoghi assegnati, tutti sparpagliati per il corridoio: Irene e io così avevamo modo di ripassare e limare la preparazione con pillole dell'ultimo minuto; mentre ripassavamo cercai di farmi un'idea dello studente universitario medio in generale, e di quello di Lettere in particolare.
Mi guardai intorno: com'erano eleganti gli altri candidati, e belli e forti e sicuri di sé, probabilmente venivano dal centro città, da poco lontano o dalle campagne ariose e salubri, e avevano alle spalle famiglie che esaudivano ogni loro desiderio - vestiti firmati, macchine di lusso, viaggi e vacanze; quelli come noi invece, che provenivano dalle periferie teatro di cronaca nera e facevano strade chilometriche per andare a scuola, di certo non brillavano in autostima e fiducia nelle proprie capacità.
Mentre divagavo con la mente in tali considerazioni sociologiche, cominciarono a chiamarci per farci entrare e assegnarci i posti.
Guardai Irene dirigersi verso il gruppo del suo canale e feci lo stesso col mio: era solo un test d'ingresso, ma mi sentivo come se di lì a poco si stessero per compiere i nostri destini.

                                     ***

La prima lezione del corso si chiamava Letteratura Italiana I e si svolgeva in un'aula bellissima del pianoterra dell'edificio di Lettere, con una capienza di circa duecento posti e le pareti di linoleum turchese.
<< Dai, andiamo alla prima fila che sennò non sentiamo niente... >> dissi incitando Irene, mentre ci facevamo strada nell'ambiente assai affollato tipico della prima lezione del trimestre.
<< Sei la solita secchiona >> sorrise quest'ultima.
<< Non sono secchiona ma previdente: mica vorrai scrivere vicino appiccicata al muro dietro l'ultima fila, o sul pavimento... >> ribattei.
<< Tanto il pienone ci sarà solo i primi giorni. Vedrai come saremo pochi, già ad ottobre... >> immaginò.
Ci stavamo mettendo ai primi posti della fila centrale, quando una voce maschile sconosciuta si rivolse a noi.
<< Vi dispiace se mi metto vicino a voi? >> chiese il proprietario di quella voce, un ragazzo alto e smilzo, con capelli castani un po' lunghi e occhi marroni contornati da una montatura rotonda d'occhiali.
<< Non c'è problema >> risposi.
<< È che solo due prime della classe si mettono in prima fila centrale, e siccome lo sono anch'io, ho pensato che magari si andava d'accordo... >> si giustificò il giovane. Dava l'aria di essere uno di quegli sfondoni che venivano bullizzati pesantemente nelle scuole dei film americani.
<< Veramente la prima della classe è lei, te lo posso assicurare perché sono la sua compagna da cinque anni >> ci tenne a precisare Irene, mettendomi seriamente in imbarazzo che nemmeno Emma. Mi girai per fulminarla con lo sguardo e notai che sorrideva come un'ebete.
<< Comunque secchione o semplici studiose che siate, è un piacere conoscere gente come voi. L'università purtroppo non è più presa sul serio come una volta, la maggior parte delle persone presenti in quest'aula sta qui solo a scaldare la sedia >> commentò guardandosi amaramente intorno.
<< Sembrava anche a me, quando abbiamo fatto il test >> concordai.
Forse veniva da una periferia difficile anche lui. Forse era ristrettezze economiche. O forse era addirittura fuorisede e viveva a Roma in affitto.
<< Dimenticavo di presentarmi: mi chiamo Cesare Giardini >> disse poi il nostro nuovo collega.
<< Molto piacere, Irene Aiello >> si presentò la mia storica compagna di banco, porgendogli la mano con un sorriso a trentadue denti.
<< Letizia Finelli >> feci velocemente, quando toccò a me. Cesare mi strinse la mano più a lungo che a lei.
<< Ma quella è la professoressa? >> domandai, per convincerlo a mollare la presa. Quella sua stretta mi aveva messa a disagio.
<< Sì, Valeria Taglioli. È una ricercatrice che si è occupata delle più grandi scoperte >> spiegò Cesare.
La donna si sedette alla cattedra: doveva avere a occhio una quarantina d'anni, capelli neri lisci, occhi scuri e occhiali rettangolari.
Si presentò, ci introdusse gli elementi chiave del corso, parlò del suo amore per l'antichità e per l'arte che l'aveva spinta a fare quel lavoro. Sembrava la versione femminile del falsario Faria.
Per questo mi piacque subito.

La ginestra e il girasole [Saga del Quartiere Anceschi]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora