Mi alzo presto il mattino, talmente presto da vedere le stelle. Quando apro le persiane, di inverno, il cielo è ancora buio, e posso vedere le luci delle barche che si muovono sull’acqua. Mentre il tempo si avvicina all’estate, o mentre se ne allontana, il cielo al mattino è ancora scuro, ma inizia a tingersi di rosa, rosso, o di mille altri colori. A volte vedo solamente la luna e Giove, che brillano nel cielo come fari da seguire. Mi piace fermarmi fuori, mentre la brezza del mattino mi accarezza la faccia, guardare e sorridere, perché anche se ho smesso di credere nei sogni, nelle stelle credo ancora. Mi piace guardarle per ore, stare a fissare il cielo, sdraiata in spiaggia, d’estate. Le stelle sono una certezza: ci sono sempre, non ti lasciano mai. Anche se non le vedi ci sono, magari dietro le nuvole, o dietro le palpebre. Guardare le stelle e provare a contarle, o semplicemente provare a trovare delle forme, come con le nuvole.
Esco da casa dopo un risveglio brusco causato da una sveglia troppo rumorosa, una breve colazione e un veloce “buona giornata” sussurrato alla porta d’ingresso.
Salgo su una bicicletta che mi ha portata ovunque, dalle montagne al mare, sotto la pioggia, sotto il sole. Pedalo, pedalo veloce, sentendo l’aria che mi scompiglia i capelli e mi sussurra parole in tutte le lingue, come se volesse riportarmi tutto quello che dice la gente. Perché la gente parla tanto, a volte dice cose senza senso. Ma continua a parlare, forse per sentirsi meno sola. Parla senza sapere di ferire, parla senza sapere di far bene. Parla talmente tanto da far male, parla di cose di cui non sa. Ma mentre pedalo tutto questo non ha importanza: mi sento libera e niente può fermarmi, neanche quella quindicina di chili che ho sulle spalle.
Arrivo a scuola anticipando la campanella di mezzora, e allora vado a prendermi un cappuccio al bar lì di fronte. Lascio la bicicletta legata al cancello della scuola, i bidelli ormai la riconoscono. Faccio quei pochi metri che mi separano dal mio caffe con molta calma, tanto niente mi impedirà di iniziare così la mia giornata. Do del “tu” alle tre ragazze che gestiscono questo posto, e loro mi chiamano per nome.
Sorrido e ordino il mio cappuccino, prendo un cornetto al cioccolato, mi siedo a un tavolo libero e mi guardo intorno. I bar sono i posti migliori per studiare le persone: c’è chi ci va per una colazione veloce, chi invece ci va con gli amici e resta per infinità di tempo, c’è chi ci va per leggere il giornale al modico prezzo di 90 cent, se con un espresso, o di 1,20 euro, se con un cappuccio, con un’aggiunta di altri 90 cent se vuoi un cornetto. E poi ci sono gli studenti, quelli che lavorano di notte, quelli che entrano solo per un pacchetto di cicche. Ma i migliori sono quelli che entrano per non restare da soli. Queste sono le persone che preferisco. Le riconosci subito: prima di entrare hanno lo sguardo basso, fissano il pavimento, come se cercassero disperatamente quelle monetine che ogni tanto la gente perde per strada. Poi entrano nel piccolo locale che odora di caffè, di mattino e di quell’affetto incondizionato che solo gli sconosciuti sanno darti, e subito alzano lo sguardo, sorridono, ordinano qualcosa e si siedono. Studiano le persone che stanno loro affianco, e se trovano qualcuno di interessante vicino a loro provano ad attaccare bottone, iniziando con un sorriso, poi con un “ciao, mi chiamo..” e alla fine il tempo vola e ti ritrovi a chiacchierare del più e del meno. Ogni tanto assisti all’inizio di grandi amori, come quelli dei film.
So cosa state pensando, ma io non sono una di quelle persone. Certo, vorrei un po’ di compagnia, ma preferisco stare sola piuttosto che con persone di cui non mi posso fidare. È un mio limite, non c’è dubbio.
Comunque sia, questa mattina l’aria ha un odore diverso, ma non mi riferisco al fatto che la ragazza di fianco a me ha esagerato con il profumo: oggi l’aria sa di nuovo, come se nel bar ci fosse qualcuno di diverso dal solito. Scruto attraverso la stanza e infine, eccolo lì! Un ragazzo mai visto prima, capello nero alla moda, vestito come un qualunque adolescente di questa città.
Niente di particolare, uno qualunque. È lì con quello che si direbbe essere suo padre, il quale sembra lo stia istruendo sul comportamento che dovrà tenere in chissà quale occasione importante.
Distolgo lo sguardo per notare che fra poco dovrò entrare a scuola. Finisco con calma la mia seconda colazione –mi sento un po’ uno Hobbit, lo ammetto-, pago ed esco. Entro a scuola, saluto chi incontro nell’atrio, magari mi fermo a fare due chiacchiere, e vado in classe. Una classe qualunque, a dir la verità. I muri sono metà bianchi e metà giallo sporco e sbiadito, manco volessero metterti allegria appena entri. Siamo ventisei, e stiamo bigiati come delle sardine per sei lunghissime ore. Infatti, ogni ora bisogna aprire la finestra, perché l’aria è talmente pesante che sembra ci sia un morto sotto la cattedra. L’unica nota di vivacità di questo posto sono le scritte sui muri e quelle sotto i banchi, che generazioni di studenti hanno lasciato in dono ai loro discepoli. Testi di canzoni, insulti ai prof, qualche ti amo: tutto qui. Però potrei passare ore a leggere tutti i ricordi impressi nel legno dei banchi che mi circondano. Invece no. Appena suona la campanella delle otto, la prima prof della giornata entra in classe carica di libri, e ricomincia quel tran tran quotidiano che potrebbe condurre chiunque alla pazzia. Mentre quella donna fa l’appello, si lamenta per chissà quale progetto che le porterà via delle ore, e inizia a spiegare, io apro lentamente il mio libro per prendere appunti, o almeno fare finta, e inizio a osservare la classe. Sono anni che passo le mie giornate con questi ragazzi. Ma non riesco a smettere di studiarli. Le loro espressioni sono talmente tante e talmente tanto complesse che per conoscerli completamente non basterebbe una vita intera. Solitamente studio coloro che reputo più interessanti, quelle persone con cui sto cercando di creare un’amicizia stabile, un legame duraturo. Li studio per capire ciò che a loro porta gioia, e ciò che a loro da fastidio, in modo da riuscire a stare con loro senza dare fastidio. Volete sapere una cosa? Non serve esattamente a niente. Per quanto tu possa conoscere una persona, questa sarà sempre diversa, in ogni istante della sua vita. È per questo che sento di essere di troppo ogni tanto. Mi sembra di cercare di forzare una porta chiusa dall’interno, di intromettermi in un mondo che non mi appartiene. Il mondo di queste persone, così linde, con un’anima bianca. Io non sono come loro. La mia anima è nera, come la pece. Non ho intenzione di raccontarvi il mio passato, non è importante per questa storia. Sappiate solo che non sono una persona buona, sono una ragazza acida e cinica, e sola.
La mia migliore amica è partita con l’Erasmus, e qui non ho quasi legami.
Certo, ci sono delle persone che ascoltano tutti i miei drammi, che cercano di starmi vicine, che mi parlano, che cercano di essermi amiche. Ho paura, però, che il sentimento che le spinge a farlo non sia l’Affetto, bensì qualcosa più simile alla Carità.…
Io dubito del mondo. Metto i sentimenti in discussione, sempre. Ho paura che le persone mi mentano. Non essendo figlia unica, ho sempre dovuto assomigliare a qualcuno, seguirne le orme. Ti senti una pecora nera, sia in casa sia fuori: ti senti sbagliata, con qualcosa che non va, in tutto quello che fai. Dubito dei sentimenti delle persone perché fidarsi sarebbe come rischiare di buttarsi giù da un palazzo senza avere la certezza di saper volare. Ho paura di farmi male, lo ammetto. È per questo che dopo un certo periodo tendo ad allontanare le persone da me. Una volta una mia amica mi ha anche tirato due schiaffi secchissime per questo. Ma non sono cambiata. Ho paura di far male a chi voglio bene.
Tornando alla nostra storia, sto provando a costruire le mie amicizie qui dentro.
Fisso la prof che spiega ascoltando mentalmente una canzone che mi è rimasta in testa. Ne ho una in ogni momento. Oggi tocca a “Astronaut” dei Simple Plan. Inseguo le note della melodia, e riinizio a pensare alle stelle. Forse è vero, non sono solo corpi celesti, forse sono qualcosa di più.
<< La sai l’ultima?>> mi sussurra la mia compagna di banco, distogliendomi dai miei pensieri.
<< No, cos’è successo?>>
<< Ti ricordi quello di cui ti avevo parlato, quello della discoteca?>>
<< Mm-mm.>>
<< Mi ha scritto ieri. Ci siamo visti, e beh, puoi immaginare.>> mi giro, e vedo la sua felicità uscire da tutti i pori.
<< Grande Laura! Finalmente una buona notizia.>>
<< Si. Voglio rivederlo.>>
<< Oh, niente di serio, vero?>>
<< Ma ci manca! Solo che è proprio un gran figo.>>.
<< Si, hai proprio ragione.>>.La campanella suona scandendo le ore, mentre l’orologio sul muro rallenta i secondi. All’intervallo scendo per fumare insieme ai miei compagni di classe. Si girano qualche canna mentre io accendo una delle mie sigarette comprate. Fumo con calma, lascio che il calore della sigaretta accesa mi scenda nei polmoni, e che poi mi esca dal naso. Rido agli scherzi idioti di chi mi sta attorno, lascio che il tempo mi scivoli addosso, come se nulla fosse. Guardo le coppiette sparse per il cortile, guardo questi amori giovani giocare con un mondo di cui conoscono poco o niente. I baci rubati in un cortile di scuola, le piccole attenzioni dedicate nei corridoi, gli scherzi fra studenti. Tutti piccoli particolari di mondi diversi, ma uniti sotto un unico tetto, come in una grande famiglia. La diversità si annida nelle aule e rende ogni giorno diverso, in qualche modo, speciale. I corridoi prendono vita grazie alle risate, al rumore di passi. Ma quando suona la campanella bisogna tornare in classe per altre tre ore di studio intensivo
STAI LEGGENDO
Make it count
Romance- Ho provato a seguire la mia strada senza avere però una luce che mi mostrasse dove mettere i piedi. L’ho cercata ovunque, ma non l’ho trovata. E rincorro ancora il sogno di una favola, quello che mi hai insegnato tu. -