Knocking on Heaven's doors

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La cartella pesa sulle spalle mentre vado scuola. Sono passati otto giorni da quando Andrea è venuto a casa mia, otto giorni di speranze infrante, otto giorni di attesa. Cammino piano, essendo partita da casa prima del solito posso permettermelo. Questa mattina non avevo voglia di prendere la bicicletta, così mi ascolto il silenzio della mia città camminando fra le sue vie, godendomi i suoi odori addormentati.

Dalle cuffiette che ho nelle orecchie la musica si diffonde nella mia testa escludendo tutti i pensieri. Non sono in pace con me stessa, il dolore portatomi da Andrea non è ancora passato, però sto provando a dimenticare. I risultati sono deludenti, ma il mio cuore non è una fenice, non rinasce immediatamente dalle sue ceneri. I Guns and Roses cantano "Knocking on heavens door". Alla fine, cosa c'è di sbagliato a chiedere un po' di pace? No, non voglio bussare alle porte del paradiso, però vorrei che quel paradiso nascesse dentro di me, che dalle macerie del mio cuore ne nascesse uno nuovo, più forte, che potesse perdonare tutto questo dolore, che lo potesse per lo meno affrontare.

Non tornerò a essere quella che ero prima di conoscere Andrea, sarò migliore di quanto io sia mai stata. Devo avere il coraggio di prendere in mano la mia vita e di salvarmi da sola. Devo smetterla di piangere sulle spalle altrui, stringere i denti e andare avanti. Sarà difficile, sarà doloroso, ma se mai ci riuscissi sarei quella che ho sempre voluto essere: forte, indipendente. Forse sola, ma alla solitudine si può sempre rimediare.

Arrivo davanti a scuola con un anticipo sufficiente per un caffè. Entro nel bar che tante volte mi ha vista sola, seduta in un angolo, ad osservare le persone.

Entro e ordino il mio caffè, ma non mi siedo. Lo prendo al balcone, perché oggi non osserverò nessuno, oggi osserverò me stessa, quello che ho dentro. Mentre aspetto entra nel bar Alex, ma non lo raggiungo al suo tavolo. Lo saluto con un sorriso, niente di più. Lui ricambia, e mi fa segno di andare a sedermi con lui. Scuoto la testa, bevo il mio caffè, pago ed esco. In classe sorrido, lascio che i miei sentimenti non escano, li nascondo, li richiudo dentro di me e butto la chiave. Scherzo, gioco, rido. E quando esco cammino fino a casa. O almeno fino a che una macchina non accosta vicino al marciapiede su cui cammino, e dal finestrino aperto mi sorride l'ultima persona che mi sarei aspettata di incontrare.


<< Ciao. Come stai?>>

<< Ciao Iack, io tutto bene, tu?>>

<< Tiro avanti come al solito. Vuoi un passaggio?>>

<< Dipende tutto da dove stai andando.>>

<< Nella tua stessa direzione.>> dice, e sorride.

<< Se non sai dove abito, come puoi sapere che stiamo andando nella stessa direzione?>> gli chiedo con un sorriso.

Lui è in evidente difficoltà, così gli sorrido e salgo in macchina.

<< La prossima volta che vuoi darmi un passaggio, architetta una scusa più credibile, ok?>>

Lui si mette a ridere e fa il saluto militare.

<< Sissignor Capitano.>>

Io gli do un bacio sulla guancia.

<< Bravo.>>

Lui mette in moto. Inizio a dargli le indicazioni per andare a casa, fino a che non mi viene in mente che a casa non c'è nessuno. Allora lo faccio fermare.

<< E se oggi pranzassimo insieme? È una vita che non ci vediamo.>>

<< Sul serio?>> chiede lui, emozionato.

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