Bunker 306, ore 06:15

73 15 50
                                    

Cadaveri ammassati l'uno sull'altro. Ferite e tagli e smorfie deturpano i loro volti, al punto da renderli irriconoscibili. Il sangue che cola dai corpi sulla cima della piramide di morte si infila nelle bocche spalancate degli altri.

Il tanfo che aleggia mi costringe a tapparmi il naso con una mano: morte e deiezioni. Alcuni devono essersela fatta sotto nel momento in cui hanno visto la loro fine arrivare. Io, invece, sto per vomitare tutti i fagioli che ho mangiato a cena.

La bile che mi risale su per la gola brucia. La rimando giù. Devo trovare Mirtilla. Raccontarle quello che è successo e...

Non faccio nemmeno in tempo a terminare il pensiero che i succhi gastrici mi sprizzano fuori dalla bocca. Gialli e viscidi, macchiano gli abiti stracciati di un uomo incastrato nella piramide. Chiudo le palpebre con tanta di quella forza da provare dolore. Quando le riapro, scruto il suo viso sfigurato. Non trovo un minimo segno di riconoscimento oltre lo sguardo ormai spento. Chiunque sia stato quest'uomo, non è rimasto più nulla di lui se non un involucro dilaniato.

Mi appoggio alla parete. Le gambe sono come fuscelli al vento: potrebbero spezzarsi da un momento all'altro. E alla fine si spezzano per davvero, mi catapultano sul pavimento freddo e sporco e sterile e...

Non lo so. Non riesco più nemmeno a pensare.

La schiena non trova sollievo neanche attaccata contro la porta e allora si incurva in avanti. Dopo tutto il tempo trascorso in un bunker claustrofobico, sono abituata a starmene sempre seduta: camminare per tutte quelle ore nel tunnel mi ha distrutta. Forse è la disperazione, o magari la consapevolezza che non vivrò ancora a lungo, ma sono all'improvviso cosciente di ogni singolo dolore che mi attanaglia il corpo.

Le ginocchia sbucciate. I muscoli del collo indolenziti. I calli sotto la pianta dei piedi.

Al contrario, ciò che mi circonda sparisce. Perfino la puzza non mi disturba più. Non che riesca a respirare un granché, con i singhiozzi.

L'impotenza di fronte a un pericolo più grande di me, troppo più grande, è la peggiore delle sensazioni che abbia mai provato. La morte mi circonda ovunque vada.

Proprio come allora.

Affondo il viso nell'incavo dei gomiti. Me ne sto raggomitolata così, a ricordare un periodo che vorrei tanto dimenticare. Invece mi tormenta sempre. Il terrore della possibilità che una bomba mi cadesse sulla testa, e io che dovevo fingere di nulla finché potevo e preoccuparmi del mio stupido lavoro. La paura che, se anche io fossi sopravvissuta per miracolo, le persone a me care forse non avrebbero avuto la stessa fortuna. O Ivy.

Non c'è niente di diverso da allora.

I mostri sono le bombe. I soldati mandati a ucciderci. Ma la vera minaccia è una concezione astratta: allora avevamo un nome, Corea del Nord, e nonostante il volto del nemico fosse ben noto a tutti, nessuno poteva affrontarlo o percepirlo. Noi capivamo solo la morte.

Iniziò tutto con un virus in America, quando ero ancora una bambina. Sembrava innocuo, all'inizio, una semplice febbre come tante per cui non avevamo degli anticorpi. Arrivati i primi decessi, la nazione intera finì in quarantena, con il numero dei contagiati che continuava ad aumentare. Non si capiva come si trasmettesse, e a ogni contaminazione diventava più aggressivo. Perfino i più giovani perdevano la vita. Il tasso di mortalità raggiunse il cinquanta per cento.

Dopo decine di teorie errate, i virologi compresero che si trovava nell'aria. Bastava respirare per ammalarsi. Le cure tardavano ad arrivare, e poco a poco iniziarono a cercare una soluzione: la costruzione dei bunker dove ancora la minaccia non era giunta.

Nel frattempo, il virus si espanse anche nel resto del mondo, ad esclusione della Corea del Nord. Le speculazioni complottistiche secondo cui fosse stata proprio la Corea del Nord a scagliarci addosso un virus creato in provetta si dimostrarono presto veritiere.

La popolazione mondiale si decimò, io persi i miei nonni, due zii e un cane, eppure ancora non era abbastanza. Partirono le bombe, prima dirette negli Stati Uniti, poi ovunque.

Per proteggerci dalle radiazioni, ci rifugiammo nei bunker non appena furono pronti. Nessuno di noi sa cosa stia succedendo al di fuori, a nessuno interessa. Seppur noiosa e vuota, qui sotto c'è vita.

C'era vita.

Dopo quei giorni d'inferno, credevo di essere al sicuro. Tutti lo credevamo.

Le lacrime non si fermano. Non so nemmeno a cosa siano dovute, se al ricordo di allora o alla situazione in cui sono adesso. Non che mi faccia molta differenza.

Il naso di Ivy mi si appiccica alla faccia. Fa breccia nel mio bozzolo e mi bagna la guancia. Poi arriva la lingua, assieme a dei piccoli guaiti. Mi pulisce il viso dalle mie stesse lacrime, mi asciuga perfino le palpebre. Cerco di scansarmi, ma lei mi si arrampica con le zampe sulle ginocchia pur di raggiungermi.

«Ivy, smettila!» rido. A lei non interessa e continua, fino a spingermi con la schiena contro la porta. «Eddai

La allontano un poco per passarmi le maniche sulla faccia e ripulirmi dalla sua bava. Lei mi fissa, le orecchie rizzate e la testa inclinata. Sbuffa, come se il mio gesto la offendesse.

Mi perdo nei bottoni neri che lei ha per occhi. Risplende una luce al loro interno, il riflesso della lampadina al centro del soffitto.

Le circondo il cocciolone fra le braccia. Annuso la sua pelliccia. Certo, non sa di buono, però è il suo odore e sa di casa.

«Alla fine la più saggia fra noi due, sei tu» dico. Forse l'ho sempre saputo.

Resto così ancora un po'. Starle così vicina amplifica il mio dolore, il mio senso di impotenza, perché lei rischia di morire tanto quanto me e un'eco di quel male mi incrina il cuore solo a pensarci. Ma lei adesso è qui. Respira. Sta bene. E che mi piaccia o no, se la cava molto meglio di me contro i mostri-gatto o Tonino.

In questa dualità di sensazioni, ritrovo l'equilibrio. Le poggio le labbra sulla testa. Finché lei respira, non mi devo abbattere.

Mi alzo in piedi, seppurciondolante. «C'hai ragione tu. Come sempre.» Nel mare di morte e schifo che cicirconda, sorrido. «Cerchiamo quellastramboide di Mirtilla, deve sta' qua da qualche parte.»

In The UndergroundDove le storie prendono vita. Scoprilo ora