Bunker 306, ore 14:12

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Mai avrei immaginato che Tonino mi avrebbe salvato la vita. Soprattutto, non dopo la sua trasformazione.

Invece eccolo qui, in tutta la sua maestosa bruttezza, con l'alone di puzza che gli aleggia attorno proprio come quando c'era ancora lui in quel corpo. Gli occhi quasi non si vedono, la pelle calante li copre.

«Che cazz'è cui cos'?»

Che cazzo è quel coso, chiede Davide. Bella domanda. Mi piacerebbe davvero avere anche una bella risposta. Invece tutto quello che posso fare è scrollare le spalle e deglutire, senza mai staccare gli occhi da un qualcosa di tanto familiare e, al contempo, tanto estraneo.

«Tonino» rispondo soltanto.

Davide raccatta il fucile scarico da terra. Forse vuole lanciarglielo addosso; di certo altra utilità al momento non ne ha. «Gli hai dato un nome?»

Riderei, se non avessi il cuore intrappolato nei polmoni. Lo sento pulsare assieme a ogni singola vena che mi percorre il corpo.

Tonino ancora non si muove. Il cadavere del gatto-mostro scivola via dalla coda, finisce nella pozzanghera di liquido nero.

«È dalla parte nostra?» chiede Davide, ma ha i muscoli della mascella contratti, dubito ci speri per davvero.

«Non esattamente.» Sono abbastanza sicura che i suoi intenti omicidi nei miei confronti fossero genuini, ieri.

«Allo', stammi a senti', adesso noi ci allontaniamo piano piano, finché si sta fermo.»

Neanche fa in tempo a terminare la frase che Tonino si agita. Le braccia si piegano in posizioni disumane, quel poco che resta dei vestiti si strappa; qualcosa guizza sotto la pelle del suo stomaco prominente. Sparisce subito, al contrario dei brividi che mi scuotono. Quelli rimangono.

Tonino si rigira su se stesso e, quando finalmente spicca un balzo, si attacca al soffitto e zampetta fuori dalla stanza.

Io continuo a non muovere un solo muscolo. Non oso. Nemmeno quando Davide prova a strattonarmi il braccio, nemmeno quando il dolore dei tendini lacerati mi invade completamente.

«La'?» mi chiama. «La', ci dobbiamo muove'. Prima che torna quel coso.» Mi prende la mano. Il sangue di entrambi si mescola sulle nostre dita, le rende scivolose, eppure lui ci si aggrappa come se ne valesse della sua stessa vita, come se io fossi la sua unica speranza. Lo seguo in silenzio, mi lascio condurre lontano dalla sostanza nera in continuo movimento, fuori nel corridoio dove la rete tiene ancora imprigionati i cadaveri delle creature.

Un tempo quelli erano solo gatti. Seppur con le loro dimensioni esagerate e i corpi contorti, non mi sembrano altro che dei poveri animali indifesi.

Proprio come lo sono stati tutti i cani che ho perso nel corso del tempo. Quelle creaturine innocenti e dolci a cui ripenso sempre con dei sorrisi velati da lacrime. Ognuno di quei gatti che abbiamo ucciso aveva dei comportamenti particolari e unici, di cui la signora Diodati avrebbe potuto parlare per ore, se soltanto fosse stata ancora qui. E sebbene io non l'abbia mai conosciuta, so per certo che è così.

«Andiamocene senza Mirtilla» mi dice Davide, mentre mi tira per convincermi a scrollarmi da qui.

Io però scuoto la testa. «Ivy» dico soltanto, e lui capisce.

Inspira a fondo, si passa una mano fra i capelli unti. «Giusto. La prendiamo e poi via da qui.»

Alzando lo sguardo su di lui, mi rendo conto che il mondo attorno a me ha iniziato a ballare. Il suo viso si sdoppia, si triplica, per poi tornare a essere uno solo. Sbatto le palpebre nella speranza di riprendermi. Deve essere il calo di adrenalina a farmi questo effetto.

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