Avevo passato la notte insonne, seduto nel mio studio.
Appena tornato a casa, mi ero subito spogliato e gettato in doccia. Volevo togliermi di dosso i vestiti istituzionali e pensare solo a qualche lettura leggera che mi avesse fatto svagare per qualche ora.
Ma nemmeno i libri sembravano consolarmi come di solito facevano, ero solo in casa. La mia compagna era fuori città per alcuni impegni e forse era meglio così, non avevo voglia di parlare con nessuno e nemmeno di dare spiegazioni. Probabilmente sarei stato meglio a vivere da solo, era da parecchio che rimpiangevo la mia solitudine casalinga, ma non mi ero certamente mai espresso con Lei a riguardo.
Osservavo la mia libreria, anni e anni di studio e di lavoro, notti insonni e ancora lavoro. Tanti sacrifici anche sul piano personale per poi ritrovarmi completamente "fregato" in pochissimi giorni. Avrei dovuto avere meno ambizioni, non avevo mai capito cosa mi portasse a volere sempre di più anche a costo di farmi male come infatti era accaduto.
Presi il telefono e inviai un messaggio a mio figlio, dove gli dicevo che l'indomani lo avrei portato a fare colazione con me e passato qualche ora assieme.
Pochi minuti e la sua risposta arrivò entusiasta, una fitta di dolce calore mi perforò il cuore.
Andai a controllare i giornali sul telefono, un gesto che facevo ormai automaticamente, i giornalisti non perdonano e io cercavo sempre di tenerli sotto occhio.
Ma servì solo per farmi innervosire ulteriormente.
Gettai il telefono sulla scrivania e sospirai affranto.
Potevo tornare comunque ad insegnare, essere professore era sempre stato appassionante. Non era mai stato un ripiego rispetto alla mia carriera di avvocato. In fondo stare con ragazzi più giovani mi piaceva e alcune volte rimpiangevo i miei venti anni passati in uno studio matto e disperatissimo, come avrebbe detto Leopardi.
Adesso a cinquanta anni passati mi ritrovavo a voler cercare una gioventù spensierata, una serenità che difficilmente avevo trovato. Sarei comunque diventato avvocato con il senno di poi? Non lo so...
Mi alzai dalla scrivania e aprii un'anta della mia libreria in cerca di una piccola consolazione. Mentre mi versavo un dito di cognac nel bicchiere e iniziavo a sorseggiarlo a piccoli sorsi, ritornai agli eventi trascorsi poche ore prima.
Dovevo almeno rimediare in parte a questa giornata disastrosa, nella quale avevo anche quasi ucciso una persona.
Penso che Gaia mi avrebbe quasi strozzato se non mi avesse riconosciuto.
Guardai il post-it che mi aveva dato con il suo indirizzo e numero di telefono. Già, il telefono.
Il mattino seguente mi svegliai di buon'ora, non che avessi dormito molto ma mi imposi di non rimanere a letto.
Scesi sotto casa prima di andare a prendere mio figlio, acquistai velocemente un telefono per Gaia, chiedendo al negoziante di chiamare un corriere immediatamente e recapitarlo il prima possibile, feci inserire nella scatola un biglietto a mio nome.
Poi trascorsi il mattino con mio figlio e finalmente quella giornata ebbe un senso.
Verso mezzogiorno tornai a casa e scesi in garage, presi la mia bicicletta e iniziai a pedalare lungo le strade della Roma caotica, piena di traffico e turisti.
Avevo bisogno di stare un po' in mezzo alla gente "normale" per riprendere contatto con la realtà, assaporare un po' di vita vera.
Pedalai fino a Via dei Fori Imperiali, i turisti erano così tanti che dovetti scendere e spingere la mia bici a piedi, faceva un caldo infernale ed ero completamente sudato, inoltre iniziavo ad avere sete e fame, ma non avevo voglia di tornare a casa.
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Un giorno, all'improvviso (Giuseppe Conte Fanfic)
General Fiction"La vita è questa. Niente è facile e nulla è impossibile." G.Donadei Scritta in piena quarantena, a forza di decreti del nostro affascinante carceriere.