Ero in quella saletta a fissarmi le unghie da circa un'ora, la più lunga della mia vita.
"Cerca di stare calma", mi sussurrò Brad seduto su una sedia di plastica di fronte a me.
"Sta' calma, e non dire niente", continuò, ma per capire ogni parola dovetti osservare con attenzione i movimenti lenti delle sue labbra rosse. C'erano le telecamere e lui lo sapeva. Gli feci cenno di sì, senza darlo troppo a vedere, non solo perché ci stavano guardando, ma anche perché non ero affatto convinta di quella risposta.
I minuti continuarono ad ammucchiarsi confusamente l'uno sull'altro, lunghi e interminabili, e guardai Brad di soppiatto. Era fermo in una posizione che ostentava nervosismo: i gomiti poggiati sulle ginocchia, le mani nei capelli ormai diventati un po' troppo lunghi, il viso rivolto al pavimento grigio. Non potevo vedere il suo viso, ma sapevo benissimo che lui non era affatto preoccupato, sapeva come funzionava lì, al contrario di me. A un certo punto sospirò pesantemente, alzando poi la testa verso di me. Gli occhi, ora, sembravano stanchi, sul punto di chiudersi, e la pelle ancora più pallida del solito.
"Brad, stai bene?", gli chiesi a bassa voce, timorosa di rompere il silenzio di quella sala grigia.
"Sì, sì. Sono solo stanco", sussurrò strofinandosi gli occhi con la mano stretta in un pugno. Sbadigliò e si passò una mano sulla faccia, per poi sospirare di nuovo e mettersi seduto dritto sulla sedia.
La porta si aprì, rivelando un altro poliziotto.
"Ragazzi, vostro padre vi aspetta all'ingresso", disse senza alcun particolare sentimento che trapelava dalla sua voce. Guardai confusa Brad, che si era già alzato. Uscimmo insieme dalla stanzetta e raggiungemmo che attendeva nervoso. Quando la sua faccia si rivolse nella nostra direzione, non so ben dire cosa notai: sembrava così pieno di sentimenti contrastanti allo stesso tempo che non avrei saputo dire quale predovinava. Era arrabbiato, deluso e sollevato, tutto insieme.
"Andiamo", disse freddamente, camminando all'esterno della struttura seguito a ruota da noi due. Il sole ormai stava scendendo e un meraviglioso tramonto appariva davanti ai miei occhi. Entrammo in macchina.
Ma perché stavamo andando via?
In macchina si creò presto un silenzio pesantissimo, durante il quale nella mia mente si alternarono centinaia di domande, pensieri e sensazioni diverse. Il pentimento per ciò che avevamo fatto regnava con prepotenza su tutto il resto, e iniziai a sperare con tutta me stessa che quell'assordante silenzio venisse in qualche modo interrotto.
"Ragazzi", si schiarì la voce , "non sapete quanto mi avete deluso. E non parlo della droga -quella so che non era vostra- , ma di tutto il casino che avete combinato. Vi rendete conto? Potevate finire in galera! Lo capite? ", disse con una punta di esasperazione nella voce. Io e Brad, chiaramente, rimanemmo in silenzio per tutto il tempo nel quale lui continuò a parlare.
"Io.. io non so cosa fare ora."
Eravamo stati condannati a lavori socialmente utili per tre mesi e a una pesantissima multa, che Mark aveva già iniziato a pagare. Ci avevano tolto i cellulari e ogni accesso a Internet e, almeno per il primo periodo, saremmo usciti di casa solo per andare alla mensa dei poveri nella periferia non lontana da casa ogni due giorni e all'orfanotrofio dall'altra parte della città.
A casa le conversazioni con la famiglia si erano ridotte. Io e Brad passavamo la maggior parte del tempo insieme nella stanza di uno di noi, tranne quando eravamo troppo nervosi e sapevamo già che a stare insieme ce le saremmo suonate. Non sapevamo più cosa inventarci per passare il tempo: a volte giocavamo a carte, a qualche stupido gioco, o, quando potevamo, guardavamo un po' di tv. E così i giorni trascorrevano sempre più lenti.
Uscire era una liberazione per noi essendo ormai segregati in casa: era come poter finalmente respirare.
"Dai, non portartelo dietro!", mi lamentai con Brad accennando al suo skateboard.
"Sennò arrivi un'ora prima di me", continuai. Oggi, dopo un mese e mezzo che ci accompagnavano alla mensa in auto, Violet e Mark avevano deciso che potevamo andarci da soli, tanto non era poi così lontana e ci stavamo responsabilizzando.
"Non me ne fotte niente", rispose lui, senza nemmeno guardarmi negli occhi, mentre si metteva un cappello in testa e afferrava la tavola. Era uno di quei giorni no.
Sbuffai e alla fine, avendo lasciato che si portasse lo skate, ero rimasta sola a camminare nell'aria secca e fresca Di quel pomeriggio di agosto. Piano piano avevamo ripreso i rapporti con i nostri genitori adottivi e con i nostri fratelli, anche se era ancora difficile accettare quello che era successo non molte settimane prima. Pensare a quell'uomo, poi..
Mi misi le mani nelle tasche della felpa quando un alito di vento più fresco degli altri mi fece rabbrividire, e poi iniziai a canticchiare una canzone nel tentativo di scacciare tutti i pensieri negativi. Ma non funzionò affatto.
"Scarlett!", sentii qualcuno chiamarmi dietro di me, "Ti sono mancato?"
HEEEY POPOLOO!
Prima di tutto sono una vera cafona: non ho aggiornato per tipo due mesi, e ora me ne esco con questo pipitino di capitolo. Anyway,
fatevelo piacere.
No, okay, haha. Spero non vi faccia troppo schifo e vi saluto. Aggiornerò prima possibile, promesso!
(E comunque, per le mie lettrici che fanno parte della Magcon family, sta per arrivare una sorpresina per voi!)
Commentate e fatemi sapere, byee
-Alo♡
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DANGEROUS ||Bradley Will Simpson||
Fanfiction《C'è una famiglia per te.》 La frase che aveva fatto battere forte il cuore di Scarlett, che le aveva fatto tremare le gambe, le aveva ingarbugliato lo stomaco. La frase che, per una volta in vita sua, l'aveva fatta sentire importante, desiderata. E...