INTRODUZIONE - SEVERUS PITON

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Il rivolo di sangue caldo arrestò il suo corso appena fu a contatto con la camicia bianca. La macchiò di rosso. Più la vena pulsava; più forte il cuore batteva, più forte il sangue zampillava dai fori sul collo verdognolo.
Avvicinò il legno di betulla alla ferita e intonò l'incantesimo, singhiozzando per lo sforzo «Vulnera sanentur... Vulnera... Sanentur».
Il sangue si ritrasse fino a colmare i fori da cui era uscito, cicatrizzandoli.
Nagini era un maledictus: il suo morso era una maledizione alla stregua di qualsiasi incantesimo di Arte Oscura, per questo avrebbe funzionato.
Aprì il mantello nero, sotto il quale celava un taschino cucito in un secondo momento ed in maniera raffazzonata. «Accio Antidoto»
Non c'era nulla di incredibile nella decisione di bere quell'intruglio. Avrebbe almeno rallentato il battito cardiaco e di conseguenza la circolazione del veleno nel sangue.
L'Oscuro Signore lo aveva sottovalutato, come aveva sottovalutato chiunque non fosse stato Egli stesso.
Questo era un bene, di per certo.
Lo era stato per lui e lo sarebbe stato per Harry.
Avrebbe dovuto raggiungerlo per rivelargli tutto ciò che aveva tenuto celato in quegli anni. Quel "contrattempo" glielo aveva impedito, ma per qualche motivo, il ragazzo era riuscito ad arrivare alla Stamberga Strillante e a raccogliere i suoi fluidi.
Non c'era alternativa, quella era l'unica strada possibile, anche se provava un forte risentimento ed una forte vergogna nell'aver dovuto consegnare a lui i suoi ricordi, la sua storia.
Poggiò le labbra viola sull'orlo della fiala e  bevve. Si sentì riacquistare calore.
Trascinò la mano grigia sul collo e tastò la ferita: non c'era più nulla.
Provò a rimettersi in piedi; lo sforzo fu tale che gli si strizzarono gli intestini e la perdita di equilibrio gli offuscò la vista per qualche attimo.
Riacquistò una postura naturale ma dovette appoggiarsi alla parete in legno per riprendersi del tutto.
Non poteva strisciare fuori dalla Stamberga: sarebbe svenuto vista la poca ossigenazione dei tessuti, dovuta all'effetto dell'Antidoto contro i veleni comuni; ed era comunque troppo debole per smaterializzarsi, ma quella opzione gli parve la più ragionevole.

Pop

Le ginocchia toccarono il suolo. Si ritrovò carponi fuori alla Stamberga Strillante, poco più lontano del negozio di Zonko, lungo High Street di Hogsmeade, con una mano spaccata. Perdeva altro sangue e non aveva del dittamo con sè.
Rivolse uno sguardo al castello, sul profilo nero delle montagne oltre le quali si ergeva, zitto. Per quanto lontano, notò una quiete tagliente: non un colpo che sgretolasse le mura; non un lampo di luce verde.
Era finita.
Tutto ciò che aveva dovuto patire in quegli anni, il pericolo; il dolore; il pentimento; la paura; il risentimento acquistavano un senso solo adesso.

I cani randagi invadevano la città, a fiotti. Parevano bearsi della paura altrui per generarne altra. Centinaia di spettri neri come l'onice facevano scintillare gli occhi gialli alla luce della luna.
Quando uno di loro latrava, come fosse lo squillo di una fanfara, altri latravano a loro volta in un annuncio collettivo.
I loro musi erano sporchi di sangue. Macinavano le ossa degli uomini con i denti e si rotolavano nel marciume. Gruppi di cani combattevano per un braccio di qualcuno, si strappavano la gola e gli occhi a vicenda per quel parco spuntino.
Gli urli e il furore di quelle lotte rendevano sordo chiunque dovesse ascoltarli.
Quando il cielo sbiadì nel chiarore roseo dell'alba, le bande si dileguarono, lasciando pozzanghere di sangue lungo il selciato.
Piton camminava lungo la viuzza. Inciampava nei corpi che erano riversi in terra, chi affogato nel proprio sangue, chi con gli occhi sbarrati rivolti all'alba. Riconobbe i suoi studenti nel cortile della scuola. Colin Canon, con la divisa di Grifondoro attaccata al corpicino da sedicenne. Nel suo stomaco montò un guizzo di tenerezza nel guardarne gli occhi immobili, circondati dalle lunghe ciglia nere. Lavanda Brown con la trachea lacerata a destra del ragazzo. I capelli immersi nel sangue che riluceva come rubini preziosi. Avrebbe tenuto le loro teste sul cuore, in un impeto di gentilezza.
Non immaginò mai che la morte potesse essere una tale carneficina. Prima di allora, la morte si manifestava come sprazzi di vita che aleggiavano lontani dai corpi. Sprazzi.
Quella moltitudine di cadaveri osava renderli anonimi. Tutti quegli uomini erano cadeveri senza nome che venivano sollevati per le ascelle da chi della vita poteva ancora sentirne il calore.
La morte puzzava. Il massacro puzzava.
Terry Steeval vomitò sulla testa del cadavere di un Auror, mentre provava a trasportarlo, poi, pianse e Piton lo sentì scusarsi; un altro cadavere era riverso a testa in giù nelle macerie dalle quali spuntavano le gambe di una bambina.
«Tiriamola fuori» aveva sentito dire da due soccorritori. I brandelli di stoffa nera e gialla attaccati alle gambine dal sangue e la minuscola bacchetta ancora stretta in pugno. Ci misero tanto a tirarla fuori, senza che nessuno li aiutasse. La agguantavano a turno, con delicatezza, quasi avendo paura di ferirla. Ci misero tanto perché non appena un centimetro veniva guadagnato, un secondo bastava per perderlo e per riguadagnarlo ci voleva un'altra vita.
Lo sforzo che Piton vide fare ai soccorritori, lo provò nella pancia e ebbe dei conati di vomito così violenti che tossì e sputò in terra. Alla fine, i soccorritori riuscirono ad estrarre il corpicino della bambina. Un orripilante hamburger vermiglio da cui ciondolavano dei riccioli neri. Piton non la riconobbe. Uno dei due soccorritori si tolse i guanti e vomitò con un urlo.

Sull'uscio del portone principale c'era Gazza, indaffarato a spazzare via la polvere e a raggruppare macigni e pezzi enormi di intonaco delle mura rotte.
Quando si voltò verso Piton strabuzzò i piccoli occhietti asciutti: era rimasto sgomento, tanto che il macigno che teneva tra le mani gli cadde sul piede e lo fece ululare.
I piagnistei del custode attirarono l'attenzione dei presenti in Sala Grande. Il chiacchiericcio si affievolì e la McGranitt uscì di corsa dalla grande porta che portava al corridoio d'ingresso, insieme ad Harry.

«Severus!»

Alla vista di Piton rabbrividì: era messo peggio di quanto non volesse ammettere.
Ciò che Harry aveva rivelato a Voldemort durante il loro scontro era abbastanza da far provare alla McGranitt una certa premura nei confronti del collega.

«Poppy, presto! Va portato subito in infermeria!» urlò, con spavento.

Piton non disse una parola: gli si sciolsero le ginocchia e cadde sfinito sul pavimento freddo e polveroso, con un tonfo, consapevole di essere al sicuro, di aver scelto la giusta parte.

IL LEONE E LA SERPE - SNARRYDove le storie prendono vita. Scoprilo ora