4 - Le mani? È tutta questione di cervello

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Nei giorni successivi cercai di allontanare il pensiero di Sverre mantenendomi occupato. Fatica sprecata. Anche se mi alzavo prima dell'ora di colazione per andare a correre, qualsiasi cosa me lo ricordava. La terra brunita dei campi aveva lo stesso colore della sua pelle, i tronchi vellutati dei gelsi richiamavano la barba rada, che solo in sogno mi azzardavo accarezzare. L'erba assolata brillava come i suoi capelli non più lunghi di due dita. Non mi ero mai soffermato a osservare nessuno quanto lui. Di Sverre avrei potuto ritrarre il volto a occhi chiusi, avessi saputo disegnare come si deve.

Anche durante la ricomposizione degli elementi di plastica avuti da Ludovico, il chiodo rimaneva fisso nella testa. Costruii anche una bacheca dove esporre i pupazzetti.

Mi piaceva muovere le mani. Fai lavorare le mani se proprio non riesci a far funzionare il cervello, ripetevo come un mantra il motto di mia madre che, in quanto orafa, mi aveva trasmesso una certa manualità. Perciò seguivo il suo esempio. L'accontentavo al punto che in tre giorni avevo anche pulito la piscina. L'aveva fatta istallare nel cortile, dov'era visibile da qualunque finestra e balcone che dava verso l''interno.

"Muovi le mani, se non sai fare funzionare il cervello," poteva sembrare un'accusa, ma non era così. Avrei potuto recriminare la prima volta che me l'aveva detto, ma avrebbe necessitato la spigliatezza che non avevo. Se ne avessi avuta, avrei resa felice mamma più di quanto già non era. Vigliacco. Solo la faccenda del motto mi distolse un attimo dal pensare a Sverre.

Ma non potevo scampare a lungo al suo ricordo, dal momento che anche la mia pelle mi raccontava di lui, poiché sulla scapola avevo il livido lasciato dal colpo ricevuto dallo skateboard. Lo notai per caso, specchiandomi in camera mia: una saletta al piano superiore dove, se non si vedesse il letto si stenterebbe a credere che lì ci dormivo, tanto era piena di cianfrusaglie sparse ovunque.

Mio nonno Landino mi aveva raccontato che quella una volta era la camera dove uno dei suoi avi teneva nascosta l'amante, o le amanti, non saprei, e che una notte la moglie, scoprendola, la torturò fino ad ammazzarla. La vicenda rimase viva nella mente dei popolani sino allo scoppio della prima guerra mondiale. Dopo assunse tinte da spauracchio da raccontare ai bambini monelli. Si diceva che anche di giorno, se si restava nel silenzio più totale, in quella camera si poteva sentire l'agonia di una donna. Purtroppo quella storia aveva reso la villa anche meta di pellegrinaggio da parte di appassionati di leggende metropolitane, e non di rado venivano ospitati gruppi di esploratori del macabro, dai quali mamma si faceva pagare le camere. L'accoglienza valeva fino a un certo punto.

Nemmeno l'aneddoto della mia camera riuscì a stemperare la febbre che avevo di lui. "Se solo esistesse un modo per attrarlo." Ripetevo tutto il tempo, anche quando mi tuffavo in piscina e camminavo in apnea lungo il fondo. Mi sembrava di scimmiottare Luis Armstrong che cammina sulla luna, solo che la mia era sommersa. Una volta avevo provato anche a ballarci, e per poco non annegavo. Era divertente stare in acqua e risalire in superficie come i delfini. Peccato che quella volta mi beccai una sfuriata da Cecilia, cara mamma sempre attenta a tenermi d'occhio. Accorsa con un telo spugna grande quanto una trapunta e mi strofinò stizzosa, e con maggiore stizza mi coprì la testa per paura che mi venisse un attacco di panico se avessi alzato lo sguardo al cielo. Quante raccomandazioni poi, se mi avesse visto farlo di nuovo me le avrebbe suonate. Assicuro che non è mai successo, nemmeno dopo tutte le altre volte che lo rifeci. La cosa un po' mi divertiva.

«Asciugati che ci sono ospiti! Voglio che tu ti prenda cura di uno in particolare.» Dio, fa che sia Sverre! Mi misi a supplicarlo anche se non andavo in chiesa nemmeno durante le gite. Sarei stato un servo devoto, avrei preso pure i voti purché mi avesse concesso in quel giorno la grazia di stare con Sverre, anche se alla fine non sarebbe successo niente di ciò che realmente volevo. Se dovevo inginocchiarmi mi sarei inginocchiato, se dovevo prostrarmi mi sarei prostrato, se dovevo umiliarmi bé, non sarebbe stato più penoso di come già mi sentivo.
Implorante di ritrovarlo, mi lanciai dentro la sala principale, quella dov'era il divano lungo il lato della porta e che fungeva da divisorio con la zona più intima, dove gli ospiti ammiravano la collezione di specchi, mobili antichi, di quelli tutti a ghirigori e laccature rifinite in oro di mia madre. Quella stessa sala dove indugiavano i migliori clienti o pazienti, o tutti quanti, di turno; e chi poteva essere migliore ospite di Sverre?

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