16 - Tra la torta e le scarpe vecchie

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Mi pentii d'aver letto la storia della nascita di quel dolce maledetto, perché era nato sotto una cattiva stella, e nonostante negassi ogni similitudine, mi ero specchiato nello chef che l'aveva inventato.

Chissà quanto aveva sospirato quel certo Berth Sachse quando nel 1926 vide per la prima volta a Perth, in Nuova Zelanda, Anna Pavlova, ballerina internazionale, danzare al teatro vicino all'hotel dove lui lavorava. Resort dove lei aveva soggiornato. Sarà stata uguale alla mia l'angoscia che aveva provato nell'averla così vicina e sentirla lontana allo stesso tempo. Tra me e Sverre vicinanza e lontananza erano diventati sinonimi. Chef Sachse non si era mai avvicinato ad Anna Pavlova, aveva fatto tesoro solo dell'ammirazione segreta che provava per lei, nel vederla camminare leggiadra come una nuvola, una figura eterea e inarrivabile. Quando era sul palco poi, scivolava ammantata di grazia ed eleganza. Pare che "la morte del cigno" fosse stata composta appositamente per lei. Destino volle che non ci fu nulla tra loro. Lei, troppo delicata, morì a causa delle complicanze da polmonite.

La triste notizia giunse allo chef, e lui, ricordando quanto la ballerina fosse golosa di dolci, ne inventò uno in sua memoria. Voleva fosse bianco come il tutù, che fosse duro come le punte delle scarpette da ballo, e allo stesso tempo soffice come una nuvola. Pensò alla meringa. Dopo varie prove, il dolce Pavlova nacque come lui l'aveva desiderato: un guscio candido e duro all'esterno ma morbido e delicato all'interno. Il tocco finale lo destinò alla panna montata con la quale la guarnì, a simboleggiare il candore del tutù, e in decorazione una chiazza di confettura di lamponi a sottolineare il sangue di lei, della sua morte, della sua fragilità.

Ah, come non ricordare che lui era più giovane di lei di quasi vent'anni.

A questo punto i miei ricordi si confondono sempre. Perciò non posso dire quando confidai quella storia a Tobia. Lui era la voce e l'orecchio della mia coscienza. Non posso essere sicuro se successe prima o dopo avergli mostrato l'antico foglietto sbiadito. Quello riesumato dalla scanalatura del tavolo che avevo restaurato. Ricordo le sue parole: "per il cuore, più velenose delle parole scritte o dette, sono quelle non scritte né pronunciate". Me lo disse mentre cercava di leggere la parte leggibile di quel vecchio biglietto. Vedendolo rattristato, mi sorse il sospetto che quel pezzo di carta era la testimonianza di qualcosa di segreto tra nonno Landino e Tobia. Incredibile, tanto quanto la mia ostinata ottusità nel non recepire le cose importanti nel tempo giusto.

Tornando alla vicenda della Pavlova, non volevo per me l'epilogo dello Chef, né lasciare scritti occulti di cui nessuno un giorno sarebbe importato. Dovevo dire tutto a Sverre. Andasse pure come doveva andare. Poteva anche andarsene, ma sapendo. Questo è il punto fondamentale, sapendo tutto il possibile di me.

La mia versione della Pavlova non riuscì a primo tentativo. Per fortuna gli ingredienti erano semplici e a portata di mano. Perciò, ignorando Olga contrariata dello sciupio del cibo, quella volta aveva avuto ragione, alla settima prova esclamai eureka! In tempo per la cena. E chissà cosa mi aspettavo accadesse quando servii quel dolce "faticoso," perché quasi nessuno ci fece caso. Solo papà azzardò a chiamarla torta con meringhe. Menomale non c'era Ludovico, altrimenti chissà quali nomi avrebbe potuto inventare. Una ospite vicina di collina lamentò con disgusto troppa panna, però era bella d'aspetto con tutte le fragoline selvatiche... Atticus invece lo chiese se era la Pavlova, perché dalla faccia che fece non mi sembrava l'avesse riconosciuta. E Sverre? "Oh! Sverre è per te che l'ho fatta. Non ci ho messo solo le mani, ma anche il cervello, il pensiero e tutto il resto!" Era quello che i miei occhi ruggivano. Lui, beffardo, con un angolo della bocca sollevato, assaggiò solo una forchettata, poi lasciò il resto nel piatto che spinse lontano pochi centimetri con un dito. Io non avevo voglia di commentare. Ma nemmeno scappai via sbandierando la mia offesa, piuttosto attesi altri commenti che non arrivarono. Mi sorse il dubbio non fosse venuto bene quel dolce. Ignorando l'originale, il rischio di fallire era alto, avrei dovuto preventivarlo. Meditai di bruciare il nuovo libro di ricette, ma non lo feci, mi limitai a rifugiarmi in cucina con la scusa di aiutare Olga, avendola vista più stanca del solito, il che era vero. Ascoltai un commento di mamma in mia assenza «dovremo assumere una ragazza tuttofare, poverino, è tutto il giorno che lavora.»

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