Rivedere Sverre il giorno dopo non mi diede la stessa emozione della volta precedente, forse perché il ritorno era annunciato. E poi come potevo essere felice, era tornato in compagnia di una ragazza. La riconobbi. Era la stessa che al primo incontro al bar di Anna, stava seduta accanto a lui. Quella che avevo notato tormentare il suo braccio mentre servivo il caffè.Non ero mai a disagio con gli ospiti che invadevano "cortesemente" i miei spazi, però vedere Sverre e Jennifer seduti e disinvolti nel terrazzo giardino a chiacchierare con i miei, mi aveva irritato.
Non potevo nemmeno risentirmene. Era gentile. Anche quando le stavo servendo la colazione, nonostante l'attenzione rivolta ai miei genitori, Jennifer si dimostrò cortese, perciò destinata a diventare una ospite gradita. Ammetto però che non mi dispiacque, darle attenzione mi aiutò a ignorare Sverre. Nascosi anche gli occhi sotto la visiera per accentuare l'atteggiamento distaccato, ma era fatica sprecata, perché da come stava divorando le cose che avevo preparato appositamente per lui, lui a tutto stava pensando meno che a me. E dire che per preparare la colazione avevo sacrificato tutta la routine mattutina, soprattutto la passeggiata nella piscina.
Mi fulminò con un sorriso quando mi scoprì deluso, perché era chiaro che non avremmo trascorso un secondo insieme, con Jennifer intorno. E quando appresi il motivo per cui era tornato, l'umore precipitò alla velocità di un asteroide. Sverre e Jennifer stavano organizzando la visita di un ambasciatore australiano, e io immaginavo d'aver tra i piedi anche un altero, vecchio snob in doppiopetto.
Cosa faceva Jennifer? Lei era un'attivista del WWF. insieme a Sverre, l'etologo, formava una bella coppia. Io e le mie palpitazioni potevamo metterci l'anima in pace. Cosa c'entravo io? Niente. Perciò alla prima occasione mi dileguai, anche se la mia fuga gridava a Sverre: "inseguimi! Ti voglio!" Ma Sverre l'avrebbe capito? O avrebbe riso di me più di quanto sospettavo facesse. Forse mi avrebbe sputtanato. Aiuto!
Allora mi reputai saggio a imboccare la scorciatoia e andare a rintanarmi nell'angolino di Tobia, all'ombra di Pitagora, tanto lui non sarebbe venuto. Scaricai la frustrazione sistemando la siepe di lamponi piantata sul ciglio del muricciolo di cinta. Da lì si vedeva il terrazzo inferiore dedicato ai peri coscia. Un frutto prematuro di quegli alberi rimbalzò sulla mia testa, e io indispettito lo colsi divorandolo sul posto.
In verità stavo masticando non il frutto succoso e dolce, ma l'amaro dei miei pensieri. Per fortuna venne Tobia a distrarmi, altrimenti povero arbusto. Lo trovai rilassato e sapevo perché: mamma e papà dovevano recarsi a Udine nel pomeriggio, e la loro assenza allentava la sua tensione; lo sapeva perché era Olga a passargli le informazioni. Sospettai che facessero di proposito quelle commissioni periodiche per concedergli una tregua dalla soggezione di cui era preda. Mi godetti la sua allegria e il divertente ventaglio di battute spinte col quale riuscì a farmi ridere, almeno fino a quando non si ammutolì disturbato da una risata estranea. Era Sverre che apriva il cancelletto di legno del terrazzino. Tobia svanì dalla mia visita.
«È qui, è qui!» ripeteva Sverre mentre tratteneva Jennifer per un braccio affinché non cadesse, visto che non indossava calzature adatte.
Ero confuso. Sverre mi aveva "inseguito." Ma perché si era portato dietro Jennifer? Accennò un saluto, e poi riconobbe in mezzo ai tre melograni e il mandorlo, Pitagora, anche se non l'aveva mai visto. Spavaldo, invitò Jennifer ad ammirare il mio albero come fosse una sua proprietà. Quando poi raccontò l'aneddoto che lo legava, che mi riguardava, con annesso il particolare dell'incidente al ginocchio, mi scaldò il cuore. Poteva essere sembrato indiscreto, ma non me n'era fregato niente, ciò che importava era che se lo era ricordato. Qualcosa doveva pur significare.
«Prodigious!» Esclamò Jennifer, sorpresa dai frutti di Pitagora, e mi applaudì. A quel punto mi arresi alla sua simpatia. Lo era davvero, col suo accento americano e la vena umoristica che saltò fuori come il falco pellegrino che sbucò all'improvviso, e che per poco non era andato a sbattere contro la testa di Sverre, se non avesse compiuto un'impennata acrobatica all'ultimo secondo. Ridemmo complici quando Sverre scimmiottò spavento, incurante d'essere sorpreso ad ammirare quel falco. Avrei voluto unirmi al suo sguardo, condividere quell'attimo di meraviglia, ma non avevo intenzione di svenire a causa dell'anablefobia.
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Raccontami di me
RomansaQuesto è Il ricordo di una estate, perso negli anni novanta, che non svanirà mai nella memoria di Tino e Sverre. Una storia di pochi giorni, consumata tra le colline del Friuli Venezia Giulia, dove il figlio diciassettenne di una orafa e di uno psic...