17 - Galeotto fu il bullone e chi lo strinse

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Ero fuggito da lui. Sulla soglia del negozio della fruttivendola, Sverre mi aveva detto: "non sai più come farmelo capire". Era consapevole che l'adorassi. Nonostante ciò, ero fuggito da questa verità assoluta. Non avevo afferrato l'ordine: "lasciami solo, ma non andare via", cioè voleva prolungare il tempo tra noi. Come sempre avevo bisogno dei miei tempi per capire. Maledizione e purtroppo. Non avrei dovuto prendermela se l'ordine implicava un intervallo durante il quale voleva rifugiarsi in un "bosco" di dominio pubblico? In fondo era un uomo, forte, atletico e chissà com'era visto nudo a letto. Già, vederlo nudo, solo il pensiero rendeva più torrida l'estate. Pensai, e se per uno strano scherzo del destino me lo ritrovassi nel mio letto? Allora quel letto sarebbe diventato un nuovo elemento della chimica, un numero primo mai contemplato, il p greco a cifra intera, la sfera perfetta che rotola all'infinito sul piano perfetto, il moto perpetuo, il nuovo lemnisca (il simbolo dell'infinito).

«Tino, cosa fai?» La voce di mamma diede un freno ai pensieri contorti dentro i quali mi stavo perdendo, come fossi un Teseo in un labirinto fatto di formule matematiche e concetti della fisica tutti orientati alla contemplazione di Sverre.

«Pelo patate ma'!»

«E Sverre? Non era con te?»

«Si è trattenuto dalla fruttivendola Vittoria.» Dirlo ad alta voce diede consistenza materiale a ciò che Sverre stava facendo in quel preciso istante, lo evidenziava col neon, e mamma più perspicace di me intuì.

«Ah, allora sta pelando anche lui patate!» Rise alla grande. Rise anche il Dottore in sala. Pure Olga, accanto a me, trovò divertente la faccenda, aveva gli occhi arrossati per non scoppiare a ridere senza ritegno e rischiare di risultare troppo invadente. Per me era libera di farlo. Non l'avrei giudicata. Per farle capire che era tutto a posto, le strappai un giro di valzer, e allora sì che esplose. Però mi sentii un po' preso in giro, alla fine.

«Nonna! Se ti vedesse nonno!» esclamò Veronica, la nipote di Olga, sorprendendola a ballare. «E tu! - si rivolse a me - non mi portare nonna su cattive strade, guarda che ti sorveglio!» m'indicò col dito e lo sguardo furbetto, prima di abbracciarmi e farmi promettere che avrei ballato con lei la sera stessa. Veronica era venuta da Logoredo, dove abitava, per far visita ai miei. Era solo di passaggio, aveva uno stage in una casa di moda a Milano, studiava da stilista, però il danno che lasciò dietro sé fu indimenticabile. Già al primo sguardo con Sverre, che era rincasato quando il frico era quasi pronto, scattò tra loro qualcosa di visibile, tangibile, impossibile da non notare. Sbiancai in volto. Olga se ne accorse e, preoccupata che mi fosse venuto un colpo di calore, mi propose di bere acqua e zucchero, io le chiesi dell'orzata. Non stavo male per il caldo, accettai il suo soccorso solo per farla sentire indispensabile, cioè come io volevo essere per Sverre, anche se come sembrava mi sostituiva con ogni "bosco" disponibile.

A pranzo, nel terrazzo giardino, Veronica non risparmiò mezza sillaba, era come un grammofono impazzito, e il peggio era che tutti le davano corda, persino Sverre alimentava la "diarrea verbale" di quella là. Allora sì, che volevo scappare sul serio. Sentivo le orecchie pulsare dolorosamente, come pervase da scosse elettriche. L'unico che sembrava soffrire come me era Atticus, che sbuffava elegantemente volgendo lo sguardo altrove. Mosso a solidarietà, ero sul punto d'invitarlo a fare quattro passi, quando Veronica, dopo aver assaggiato il frico, confessò la sua inettitudine in cucina. Mi chiese la ricetta.

«Fai cuocere le patate tritate con cipolla e prosciutto crudo. Quando il tutto è diventato pastoso e compatto aggiungi pezzi di formaggio Latteria primo sale. Mescola e fai rosolare da ogni parte.» Fui freddo e rapido, così acido che nessuno ribatté per prolungare il discorso. Mamma e papà rimasero a bocca aperta perché percepirono una certa irritazione dal tono che avevo usato. Ma non me ne curai. Proposi ad Atticus di andare a fare un giro, accettò con negli occhi gratitudine per averlo sottratto dal caos verboso di Veronica. Scattammo in piedi prima della fine del pranzo. Non rivolsi nemmeno uno sguardo a Sverre. Volevo che sapesse che io sapevo cosa stava succedendo, e con il mio gesto plateale rinfacciargli tutto il mio disappunto. "Quel giorno dovevi stare con me!"

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