23 - Ambasciatore porta pena

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Quella era stata l'ultima notte che Sverre trascorse a casa mia. Il tempo era terminato, che ingiustizia. Alzai la testa dal cuscino. Accanto a me c'era Ludovico che dormiva ancora della grossa. L'avevo vegliato tutto il tempo che ero riuscito, e siccome ero avvelenato dall'angoscia di veder andar via Sverre, avevo chiuso gli occhi forse mezz'ora in totale.

Non mi avrebbe più chiamato per andare a correre dopo la ginnastica, né per passeggiare in fondo alla piscina. Non saremo stati più insieme. Eppure lo sapevo. Ero preparato per questo momento. Oddio. Credevo di esserlo. La faciloneria con la quale affrontavo ogni cosa stava facendomi pagare tutto con gli interessi all'improvviso. Cos'era allora che mi faceva sentire così minuziosamente disfatto dall'interno? Durante la notte mi tornarono in mente le mie stesse parole, quelle con le quali avevo risposto a Sverre quando aveva sostenuto che fossi forte come un diamante, e lo avevo contraddetto svelandogli che un colpo ben assestato lo manda in frantumi. Ci siamo, il colpo che mi avrebbe mandato in frantumi, quasi come una profezia, stava arrivando ora che lui stava andando via.

La luce fuori dal balcone mi diceva che era mattina, una mattina più severa che radiosa, e i profumi del caffè appena fatto, dei biscotti, e forse pure di una ciambella alla vaniglia da poco sfornata, mi fece capire anche che era tardi. Scattai in piedi incurante di svegliare il bell'ubriacone, mentre mamma era già entrata in camera senza bussare, con la solita disinvoltura. Ma non mi sorprese, lo faceva spesso e non mi dispiaceva, anche perché portava sempre allegria con la sua aria svampita.

«Bambino! Allora! Oggi niente lavori da sguattero, la colazione l'ha già preparata Olga. Il tuo compito è vestirti come io comando, perché dobbiamo accompagnare Sverre, Jennifer e Atticus a Lignano, che ci hanno invitato al loro convegno...Ah! Tranquillo, non ci sarà molta gente, però tu porta sempre un cappellino di riserva a mamma...»

«Va bene mamma,» dissi, dopo che aveva chiuso la porta. Era riuscita a incrinare il broncio che mi stava appesantendo le guance.

Mi affacciai dalla porta della mia camera come se quella fosse la mia vera casa, e tutte le altre camere un coabitato condominiale invaso da estranei. Mi sporsi e vidi Sverre in camera sua assieme Jennifer e Atticus. Le valigie erano già gonfie e depositate lungo il corridoio. Le valigie. Sospirai. Ne avevo viste in continuazione entrare e uscire da casa. I bagagli, a volte, per quanto possono essere voluminosi, pieni di effetti personali, dentro è come se non ci fosse niente se del viaggio concluso non rimane nulla nel viaggiatore; egli si trascina appresso solo uno sciocco peso senza valore. Sperai che i suoi bagagli fossero pesanti, pesantissimi. Mi nacque un sorriso amaro. «Non ti dimenticherò mai. Mai. Mai,» sussurrai, e lui si voltò verso me come se mi avesse sentito. Chiusi la porta all'istante e la assicurai con la chiave per impedirgli di entrare in caso avesse voluto. Mi costò sangue freddo.

"Se proprio deve succedere, che finisca presto allora!" Era stato il primo suggerimento dettato dalla mia coscienza - alla buon'ora pure tu. Mi vestii "come mia madre comanda". Che aspetto avevo? Quello di un pupazzetto da torta nuziale - copyright di papà - ma a tavola fuori nel terrazzo giardino non ci fece caso nessuno. C'era fretta nell'aria. Doveva arrivare l'ambasciatore naturalistico dell'Australia, e quando sentii qualcuno nominarlo in mezzo a mille discorsi su cui ognuno aveva dato il proprio contributo, feci sentire la mia voce. Alzai il tono assieme al volto, fisso fino a quel momento sui colori della macedonia.

«Dov'è l'ambasciatore? Non si è ancora svegliato? Non era venuto anche lui ieri sera fino qui?» Sarà stato l'atteggiamento, il moto di delusione che cercavo di reprimere oppure, semplicemente, rabbia passiva. Fatto sta che Jennifer rispose solerte, ma Sverre mitragliò il suo proverbiale "No-No-No!" e le fece un cenno che lei afferrò.

«C'è stato un disguido con il montacarichi del trasporto aereo, ma alla fine hanno risolto... Sirocco ci aspetta a Lignano.»

«Montacarichi? E quanto è obeso questo pover'uomo?» mi uscì fuori la solita voce smielata. Sorrisero tutti della mia ingenuità, ma non importava, ovvero, del tizio difficile da trasportare non mi interessava un fico secco.

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