15 - Cercasi Pavlova disperatamente

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L'eco del suo "no" mi torturò tutta la notte. No. Un monosillabo potente, distruttivo. No. La demolizione di un sogno, anzi, il risveglio amaro. No. La negazione alla richiesta di salvezza. No. Mi assuefeci a quel crudo suono, e lo bisbigliai ossessivamente fino al sopraggiungere del sonno. No...No...No...

Cosa avevo fatto per scatenare quel no? Ah, sì, il bacio che gli avevo dato - mi correggo - che gli avevo rubato, era stato quello, quel maledetto bacio traditore, inopportuno, del quale lui ne era al corrente, perché non era vero che stava dormendo quella notte, lo sapevo, non era vero.

Ma allora che senso aveva avuto premiarmi con una meravigliosa giornata allo zoo? Forse farmi spalare la merda degli animali era una punizione? Un modo di offendermi? Lavorare, da che mondo e mondo, non è mai offensivo purché lecito. Lui era un uomo, lo doveva sapere per forza.

Mi aveva fatto conoscere anche i miei minuscoli omonimi uccellini diamantini, dei quali prima non conoscevo nemmeno l'esistenza. Quanto mi batté forte il cuore accogliere sulle mani quegli esserini.

Nonostante cominciasse a pesarmi la sua presenza in casa, non potevo non pensare a un rimedio, a qualcosa in grado di rimettere le cose in ordine. Ma non mi veniva in mente niente. Nessuna idea per tendergli una mano e stipulare un trattato di non belligeranza. Perché data la mia incapacità di odiarlo nemmeno se avessi voluto, la seconda alternativa, il rovescio della medaglia, l'antagonista dell'odio, mi spingeva a cercare un rimedio alla colpa d'idolatrarlo.

Se dormii non posso esserne sicuro, non me lo ricordo. Però quando mi alzai fu prestissimo. Smanioso di sentire il solito richiamo, lasciai la porta aperta. Poteva sembrare un duello: la mia porta aperta contro la sua chiusa. Dovevo tuttavia immaginarmelo che mi avrebbe sorpreso, perché quando aprii la mia porta vidi la sua stanza spalancata. Non entrai. Non per amor proprio, non ne avevo. Però sbirciai in silenzio. Lo vidi affacciato alla porta finestra. Stava dando da mangiare a uno scoiattolo. Chissà da quanto tempo lo sfamava. Come faceva ad attrarre chiunque e qualunque cosa si muovesse. Esisteva un limite, o un metro di misura che quantificasse quanto mi piaceva anche solo osservarlo come un ladro, smanioso di mettere le mani su un tesoro? Quello scoiattolo sul suo braccio, che sognavo su me, che invidia.

Altro che Sverre, lo chiamai Selvaggio, la versione italiana del suo nome, ma non con la sfumatura negativa d'ineducato o teppista, come facilmente esso suggerisce, no, con la sfumatura del tormento selvaggio che mi infliggeva il solo guardarlo e non poterlo sentire mio.

Mi sentivo in guerra con lui, con me, con tutto.

Era una guerra di trincea, di logoramento, di sfinimento. O forse ero solo io sul fronte, agguerrito e armato di nulla in un campo deserto affollato di disertori. Un soldato di ventura disarmato, un Don Chisciotte senza Ronzinante, senza Dulcinea, senza Sancio Panza, e senza mulini a vento, e anche senza vento. Nulla, cioè niente. Ecco la parola giusta: niente. Per lui ero niente.

Non rappresentavo niente. Anche se mi aveva notato spiarlo mentre imboccava lo scoiattolo e mi aveva ordinato di aspettarlo perché voleva fare ginnastica, correre ancora con me, come pure ancora il mio passeggiare in fondo alla piscina. Sì, quella era tornata a essere la mia passeggiata in fondo alla piscina. Non era più "anche la sua" o "la nostra". Camminare immerso nell'acqua era solo affare mio, perché non ero niente per lui.

Perché ne ero convinto? Non che me lo avesse detto apertamente. Sarebbe stato un miracolo. Mi lanciò un segnale durante la colazione all'aperto sul terrazzo giardino. Salvo cenni di cordialità, la sua attenzione principale era rivolta ai miei, persino a Olga, per non parlare dell'introverso Tobia che quando c'era lui acquisiva coraggio da leone. Riusciva a mettere in fila più frasi del solito con papà.

Però azzardai a farmi notare con qualche commento a voce alta laddove credevo essere all'altezza dell'argomento di turno, ma non accadde niente.

Sperai mi invitasse un'altra volta allo zoo, glielo chiesi supplichevole di fronte a tutti mentre si stava congedando, e di nuovo l'affermazione negativa. Me lo sentivo, era matematico. Mi sorrise spazientito tanto per chiedermi: ancora non ti sei stufato di me, di guardare ogni parte del mio corpo, di starmi appiccicato come una cosa qualsiasi riesca ad appiccicarsi sotto le suole delle scarpe?

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