Capitolo 12

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NATASHA

Mi sembrava di riconoscere uno degli uomini, ma non ne ero sicura.

Erano passate dodici ore dal mio rapimento, e stavo rivivendo l'esatto incubo che avevo vissuto nella Stanza Rossa.

Mi allenavo senza fermarmi, e se sbagliavo venivo punita. Avevo diversi lividi sulla schiena e sulle spalle, e qualche scottatura sulle braccia.

Non ricordavo un minuto di pausa da quando ero entrata in quell'inferno.

«Tieni» disse con noncuranza uno di loro, dandomi in mano una pistola.

Con la sua mi mirò alla testa, pronto a sparare se avessi provato a liberarmi. Sparai al bersaglio, cambiando mano e ad occhi chiusi, colpendolo sulla testa e sul petto.

Mentre finivo l'esercizio mi venne voglia di libertà, voglia di ribellarmi, l'unica cosa che per codardia non ero stata capace di fare da piccola.

Con un movimento fulmineo strappai la pistola dalla mano dell'uomo e con un calcio in pieno petto lo buttai a terra, mirando poi a lui e all'altro scagnozzo.

«Sei ancora in tempo per fermarti, Natalia.»
«Natasha. E butta a terra l'arma» intimai, facendogli un cenno con la testa.

Lui non fece quello che gli avevo ordinato, quindi mi avvicinai al suo collega e gli appoggiai la pistola sulla schiena, in prossimità del cuore.

«Un proiettile. Premo il grilletto e lui muore. Quindi non fare cazzate butta giù l'arma» continuai, scandendo ogni parola.

Lui continuò a non fare quello che avevo chiesto e sparò vicino a me. Riuscivo a sentire il battito del mio ostaggio crescere sempre di più, fino a quando smise di battere.

Gli avevo piantato un proiettile nel petto. Non sapevo se avesse una famiglia, magri una moglie o dei figli, ma avevo finito la sua vita semplicemente premendo un grilletto.

«Sei proprio mei guai. Yuri mi ha detto di iniettare il siero quando ti saresti ribellata, ed ecco il momento giusto.»

Mi prese per un braccio e mi fece incatenare dagli altri due uomini, accorsi per lo sparo.

Mi trascinarono lungo un corridoio freddo e buio, poi mi fecero sedere in mezzo ad una stanza di cemento armato.

Uno tra i due appena accorsi si avvicinò con una siringa piuttosto grande, con un lungo ago, che mi affondò nella pelle per iniettare la sostanza rossa nelle mie vene.

«Morirai lentamente. Molto lentamente» sorrise maligno, uscendo dalla stanza.

In quel momento non riuscivo a pensare alle mie condizioni, riuscivo solo a pensare al casino in cui avevo messo i miei amici. Se solo fossi rimasta al KGB, nessuno di loro avrebbe dovuto combattere questa battaglia contro i servizi segreti russi.

Probabilmente se fossi rimasta al KGB sarei morta, ma non importava. Sarei morta anche in quel caso, me lo avevano detto. Il siero non funzionava, aveva l'effetto contrario.

Mentre ripensavo agli Avengers, mi venne in mente Steve e tutte le cose che avremmo potuto fare ma che non saremmo riusciti a compiere. Sin da quando ero stata sterilizzata avevo pensato a dei modi per metter su famiglia. Adottare era l'idea che mi piaceva di più: avrei potuto aiutare un bambino che era stato lasciato da solo proprio come me, e magari rendere la sua vita un po' più radiosa così che non dovesse vivere la mia.

Steve era colui che durante tutti questi anni mi è stato sempre accanto, soprattutto da amico. Non potevo credere di non essermi mai accorta di provare dei sentimenti così evidenti e forti per lui.

Un pensiero raggiunse persino Bruce, che era comunque stato una parte importante della mia vita. Se non fosse stato per lui io non mi sarei mai aperta riguardo il mio passato, quindi non avrei mai aperto gli occhi riguardo il mio futuro.

Passarono le ore, e cominciavo a sentirmi stanca. Mi accasciai a terra e appoggiai la testa sul pavimento freddo, per poi addormentarmi e fare per la prima volta dopo molto tempo un sogno felice: io ero un avenger, combattevo a fianco dei più grandi eroi della storia e nonostante tutto ero un umana, una persona come tutti, che cercava di riscattarsi da un passato che l'aveva resa una prigioniera.

L'unica differenza tra me e il resto della popolazione era un passato che mi tormentava e non mi dava pace. Forse voleva solo essere rivissuto.

///

Sentii dei rumori fuori dalla mia cella, così mi alzai e cercai di capire di cosa si trattasse.

«Nat!» sentii urlare da fuori.
«Steve!» esclamai, battendo sulla porta con pugno, riconoscendo la voce dell'avenger.

In quel momento mi accorsi di alcune ferite che non avevo mai notato, come graffi e ferite non troppo profonde che avevano appena smesso di sanguinare.

I lividi che avevo sulle gambe e sulla schiena non facevano più così tanto male, ma in compenso avevo molto male alla testa, che sembrava mi stesse per esplodere.

Erano passate dodici ore da quando mi ero addormentata, ventiquattro dall'ultima volta che avevo visto Wanda, ma non avevo alcun ricordo di ciò che era accaduto in quel periodo di tempo.

«Stai bene?» mi chiese Steve, cercando di aprire la porta.
«Si, sto bene...» sussurrai, forzando la porta dall'interno.

Dopo aver aperto la porta con il suo scudo, Steve mi cercò con lo sguardo.

«Sicura di star bene?» mi chiese, abbracciandomi con preoccupazione.
«Si... ora sto decisamente meglio» sorrisi, dandogli un bacio.

Rimanemmo in quella posizione per qualche secondo, poi lui decise di portarmi fuori dal quel posto.

Mi prese in braccio, in quanto le mie condizioni fisiche erano piuttosto pessime nonostante cercassi di dissuaderlo, e mi fece scappare da quel luogo.

«Sei venuto da solo?»
«No, Wanda e Tony sono appena usciti e Vision e Clint ci aspettano sulla navicella. Ti hanno iniettato quel siero?» chiese, guardandomi negli occhi per un secondo.
«Si...»
«Cavolo. Abbiamo i minuti contati.»

The first time || Natasha Romanoff & Steve RogersDove le storie prendono vita. Scoprilo ora