10 - Incontrare

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Bass

Nella mia vita non ho mai odiato nessuno, e su questo sono irremovibile. L'odio è corrosivo e danneggia pro­fondamente chi lo abbraccia. Provarlo in modo costante mantiene il sistema nervoso in allerta, il che può portare a livelli cronici di stress e ansia: tremiti incontrollabili, umore che cambia in pochi minuti. E io, di questi problemi, ne soffro già abbastanza. A cosa servirebbe rincararne la dose? A nulla.

L'odio imprigiona la mente in una spirale di pensieri ossessivi, ostacolando la capacità di provare gioia e se­renità. Per questo, quando percepisco odore di negatività e torti, mi allontano. Scarto. Con indifferenza. Sen­za odiare.

C'è solo un'eccezione. Un'eccezione che invalida questa regola Bass-zen.

Detesto la mia fottuta mano sinistra.

Maledizione, quanto è brutta.

La fisso mentre la apro e la chiudo, avvolta in garze impregnate di sangue secco. Oggi sembra persino più gonfia rispetto all'altra.

Per fortuna non devo sposarmi, perché su questo dito non infilerei una fede nuziale nemmeno sotto tortura. Abbruttirebbe anche l'oro.

Non riesco a distogliere lo sguardo, nonostante Gérard Dubois, con la sua aria da nonnetto borioso, mi stia parlando da almeno cinque minuti.

«Disciplina, spirito di sacrificio, grande senso di appartenenza: per me, i miei ragazzi sono differenti da tutti gli altri» precisa, invitandomi a riprendere la nostra passeggiata. Ritorno con la mente all'attimo presente e mi impegno a camminare al suo fianco, sempre con lentezza. Se andassi a passo normale, lo perderei di vista.

Il signor Dubois zoppica e arranca a starsene in piedi. Il suo peso è sorretto interamente dal bastone. Povero. Non ce la fa proprio. Non voglio metterlo in imbarazzo, per cui in certi momenti lo aspetto, guardando il cie­lo.

Il sole di questo nuovo giorno illumina ogni angolo dell'accampamento circense. È così intenso che per poco non mi brucia le retine. Mi vedo costretto a socchiudere gli occhi. Più tardi, forse, indosserò un costu­me e mi metterò ad abbronzarmi dietro il van.

Amo l'abbronzatura e, nel mio caso specifico, non è difficile ottenerla in poco tempo: la mia pelle è già abbastanza scura, quasi olivastra, nonostante io sia biondo e ingle­se. Una assoluta stranezza, considerando anche che nonna Elín, la madre di mia madre, era di Reykjavík. Nelle mie vene scorre del sangue nordico.

«Al Fleurs mi sono circondato dei migliori artisti di tutta Europa. E tu che ne pensi, ragazzo? Concordi?» mi interpella Dubois, notandomi in silenzio.

Trasalisco. «Ehm, com'è che li ha definiti? D-d-disciplinati e con un grande senso di appartenenza? Le assi­curo che sono cose o, meglio, con-connotati presenti anche nei nostri artisti. Non vi faremo sfigurare» gli ri­spondo in tono educato, e subito mi chiedo se il termine usato sia appropriato.

I "connotati" non sono i capel­li?
La forma della faccia?
Che cazzo ho detto? Boh.

Ormai mi sono espresso. È meglio finire il concetto. «Dimentica ciò che unisce noi e voi: siamo c-circensi, formati tutti alla stessa maniera.»

Ci fermiamo davanti all'ingresso del tendone principale. Dubois, ammorbidendo il volto, mi fissa dritto negli occhi. «Quanti anni hai, Sebastian?»

«Trentadue a dicembre, signore.»

Mi sorride. «Tuo padre, Xavier, aveva più o meno la tua età quando ereditò il Powell Circus e lui sapeva cosa ci rendeva diversi.»

Il nome di mio padre provoca un tremolio nel mio petto, e la saliva inizia a scarseggiare. Le poche gocce ac­cumulate scorrono giù per la gola come lava incandescente, generandomi un impellente bisogno di bere. È una reazione ormai abituale per me: vado in allerta ogni volta che qualcuno menziona i nomi dei miei genito­ri. Accade anche con quello di Kenna.

«I miei ragazzi hanno fatto propria ogni sfera artistica» riprende a vantarsi, lisciando con il pollice la testa leonina incastonata nell'impugnatura del bastone. «Non sono solo esecutori di numeri straordinari, ma il frut­to di un estremismo scenico che pervade anche il loro tempo libero: ballano, cantano, recitano, creano, scri­vono, leggono, studiano, narrano a tutte le ore. Non vivono di circo, è il circo che vive in loro.»

Va bene, nonnetto, siete i più bravi del mondo.

Cosa desideri? Un applauso?

Te lo faccio, se riesci a farmi apparire dal nulla una bottiglietta d'acqua come un abile prestigiatore.

«Bene.» Annuisco. «Allora d-da voi ci sarà da imparare.»

«Ora ti aspetti che faccia il pragmatico dopo aver fatto il teorizzatore, dico bene?»

Sorrido da vero ebete. «Come, prego?»

Mi picchietta una spalla con il palmo di una mano e poi segna, tramite una lieve inclinazione della testa, il tendone. «Entriamo.»

Mentre ci avviciniamo alla pista, Dubois solleva il tema del nome da dare alla nostra nuova attività. Mi infor­ma che è d'accordo con la proposta di Melinda, che prevede di delegare a me il compito di trovarne uno.

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