Era il 19 maggio 1998 e, quel giorno, compivo 18 anni.
Lo aspettavo da quasi un anno: da quando, il 30 agosto 1997, i miei genitori mi avevano esiliato da Milano, strappandomi via dalla mia vita e strappandomi anche il cuore dal petto.
Erano passati esattamente 261 giorni dall'ultimo giorno in cui l'avevo visto, ma non ne era trascorso uno senza che gli pensassi: era stato con me sempre, dal primo fino a quel giorno tanto atteso, non se n'era mai andato, una presenza invisibile che potevo sentire solo io.
Ero stata così sola e il suo ricordo era stato l'unico a darmi la forza di continuare.
Non avevo il carattere per pensare al suicidio, ma, a volte, l'idea non mi sembrava poi così assurda.
Solo che, per quanto la situazione fosse disperata, non avevo voglia di mollare, non volevo darla vinta ai miei genitori che erano convinti di avermi sottomessa una volta per tutte.
L'unica cosa che erano riusciti a fare era stata quella di creare una donna invincibile, con idee proprie, con un desiderio di rivalsa incrollabile: avevano creato una vedova nera che voleva solo libertà ed indipendenza.
-Sei licenziata, non ti voglio mai più rivedere - dissi semplicemente alla mia tutrice, che mi fissò come se mi fosse spuntata all'improvviso una seconda testa. Fece per protestare, per dire qualcosa, ma in tutti quei mesi avevo sentito fin troppo la sua voce: ora doveva tacere -Sono maggiorenne, non ho più bisogno di te.
-Ma i tuoi genitori...
-Non ho bisogno neanche di loro - risposi, attesi che facesse la valigia e poi la spintonai fuori dalla mia camera.
Avevo bisogno di aria fresca, di cambiare, di far svanire l'odore stantio di quella persona che era stata la mia non desiderata ombra per 261 giorni, che mi aveva tolto 261 opportunità per essere felice, 261 modi per ritornare da lui.
Non c'era nulla, nel mio guardaroba da "borghese", che incontrasse i miei gusti, quindi mi limitai a indossare la divisa della scuola per uscire, solo dopo aver frequentato tutte le lezioni della giornata. Essere stata così tanto da sola, senza amici, senza svaghi, mi aveva insegnato a diventare molto esigente con me stessa: non mi sarei concessa il lusso di festeggiare prima di aver compiuto il mio dovere di studentessa, perché puntavo all'eccellenza, per sfuggire al destino che i miei avevano disegnato per me.
-Buon compleanno, Chloé - mi disse la Dürrenmatt, incrociandomi mentre uscivo dalla mia camera.
-Grazie.
-Esci a festeggiare?
-Esco - risposi semplicemente, perché, a parte essermi liberata dalla mia tutrice, non c'era nulla da festeggiare.
-Ricorda che chiudiamo la porta alle undici e trenta, non ritardare.
Non mi presi la briga di rispondere, perché, quella sera, non sarei mai rientrata entro il coprifuoco.
E non perché volessi iniziare a trasgredire, non sarei impazzita di colpo, ma volevo starmene da sola, senza interruzioni, intromissioni, ingerenze: volevo ricominciare a capire chi fossi senza che qualcuno me lo dicesse.
Mi infilai nel primo pub disponibile, sola e piena di senso di rivalsa: ero arrabbiata, ero frustrata, ero sul punto di scoppiare.
-Avete un elenco del telefono? - chiesi come prima cosa.
La barista mi squadrò: probabilmente sembravo più piccola della mia età a causa della divisa del collegio.
-Consumi? - roteai gli occhi e buttai sul tavolo un rotolo di denaro, lei mi guardò sospettosa.
-Sono maggiorenne, portami una birra e qualcosa di dolce da mangiare.
-Ho un muffin.
-Andrà bene - poi mi passò per la testa un'idea - hai una candelina?
-No - fece spallucce e le feci anche io. Non era importante.
Bevvi fino a stordirmi e mangiai un muffin vecchio e senza sapore. Barcollai fuori dal pub dopo aver scoperto che sì, avevano un elenco del telefono, ma solo di Ginevra, non certo di Milano.
Dovevo comprarmi un cellulare, dovevo cercare il suo nome, dovevo sapere dov'era finito, lo avrei trovato ad ogni costo.
Ci avrei provato fino allo sfinimento, avrei provato di tutto, non avrei lasciato nulla di intentato, nulla al caso: avrei trovato Gabriel e, prima o poi, sarebbe tornato mio.
Era sempre stato mio, lo sarebbe sempre stato.
Con passo incerto, in pieno stato confusionale, mi lasciai il pub alle spalle e passai davanti ad un cinema.
Mi bloccai di colpo.
-Sei incomprensibile – commentò scuotendo la testa, sorrise, poi si arrese – Comunque non è niente di che. Non so neanche se va incontro a ciò che desideri. Se questa sera va storta, avremo altre sere per rifarci. Magari, se vuoi, posso portarti a vedere Titanic, quando uscirà al cinema. Oppure regalarti fiori, anche se appassiranno domani mattina. Non aspettarti magie, perché non le so fare. Un mio amico ha un locale. Andremo da lui, una cosa tranquilla.
-Bene – annuii soddisfatta. Rimasi in silenzio qualche secondo, poi, guardandolo di sottecchi, ammisi – non mi importa di andare a vedere Titanic. Anzi, io, quel film, lo detesto ancora prima di averlo visto, ne parlano tutti.
-Tutti sono ossessionati da Titanic, pensavo fossi nel gruppo.
-Io non sono tutti.
-Sai, sto lentamente capendo che non sei per niente come tutti gli altri.
Quel ricordo mi affiorò alla mente come se fosse appena accaduto: il suo sguardo sornione, un po' distratto alla guida perché gli piaceva guardarmi, mentre mi portava fuori, una sera come tutte le altre. Quella sera in cui ci eravamo confessati quanto fossimo attratti l'uno dall'altra e non era solo un'attrazione di corpi, ma di menti e di cuori, qualcosa che andava molto oltre al sesso, che superava tutto.
Il cinema, a cinque mesi dall'uscita nelle sale, aveva ancora in cartellone Titanic, un film che avevano visto tutti tranne me, perché, ovviamente, anche il cinema era un divertimento e una distrazione che mi erano preclusi.
Mi infilai dentro, pagai il biglietto e mi sedetti nell'ultima fila della sala ancora piuttosto gremita.
Avrei dovuto essere con lui, a guardare quel film sul quale avevo così tanti pregiudizi, avrei dovuto piangere con lui, commentarlo, ridere e divertirmi, avremmo dovuto mangiare insieme popcorn, avrei dovuto prendermi una cotta per il personaggio di Jack Dawson, per poi rendermi conto che il mio Jack era seduto lì, proprio accanto a me: il ragazzo che mi aveva salvata dall'abisso, da una serie infinita di compromessi tra ciò che volevano i miei genitori e la mia reale natura.
Nel buio della sala, piansi tutte le mie lacrime, pensando che avevo perduto non solo 261 giorni da trascorrere al suo fianco, ma anche 261 giorni per essere me stessa davvero.
STAI LEGGENDO
Senza tempo - TERZO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉ
RomanceAttraverso gli anni, seguiamo le vicende dei protagonisti di Un gioco da ragazzi e Dalla mia parte: conosciamo meglio Chloé, Gabriel e le persone che sono state e stanno loro vicini. Attenzione, occorre prima leggere almeno uno dei due romanzi per c...