1997 - Nicole

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Mi piaceva essere un'abitudinaria.

E non perché fossi noiosa, ma perché avere una routine mi dava sicurezza.

Ero una ragazza fragile, insicura e terrorizzata da tutto, per cui avere delle certezze mi faceva sentire meno allo sbando.

Quindi, ogni mio giorno era uguale al precedente: scandito da orari ben precisi, soprattutto nei giorni di scuola.

Mi svegliavo molto presto, infilavo la tuta e, a prescindere dal tempo, andavo a fare una corsetta, poi tornavo a casa, doccia e mi preparavo per la scuola. Dopo cinque ore di studio, ritornavo con l'autobus e mangiavo con mamma, che era in pausa-pranzo. Dopo, mi mettevo subito al lavoro e svolgevo tutti i miei compiti, poi, verso sera, preparavo la tavola e iniziavo a cucinare per mamma e papà che rientravano intorno alle sette. Quando avevo il corso di danza, al martedì e al giovedì, non aspettavo il loro rientro: la palestra era vicina e, dopo aver infilato la tuta e le scarpe da ginnastica nello zainetto, mi recavo in palestra da sola e, sempre da sola, tra le sette e le sette e mezza rientravo a casa.

Quella sera era una come tante altre: faceva freddo anche se l'inverno era agli sgoccioli.

Mentre il sole iniziava a tramontare e, avvolta nella mia pesante giacca a vento, il mento infilato nel colletto, la cuffia calata sugli occhi, con le dita gelate reggevo il cellulare all'orecchio, tutta intenta in una conversazione con Claudio, che mi chiedeva com'era andato l'allenamento e che cosa avrei fatto quella sera.

Claudio si preoccupava tantissimo per me e non voleva che rientrassi a casa da sola col buio.

Non avevo la minima idea di come mai fosse così protettivo, dato che erano solo dieci minuti di camminata a passo veloce e, con quel freddo, per scaldarmi stavo praticamente correndo. Poi conoscevo quella strada così bene che avrei potuto farla anche ad occhi chiusi: sempre dritto, poi a sinistra, duecento metri e di nuovo a sinistra e poi via, fino a casa.

Sapevo quando avrei superato la casa col cane collerico che abbaiava ogni volta che mi vedeva, anche se ormai mi conosceva benissimo e forse lo faceva apposta, sapevo dove fosse la buca pericolosa da evitare o quando il portico aveva quel tratto di pavimentazione scivolosa.

Insomma, non c'erano pericoli, quindi non capivo perché insistesse nel voler sapere quando arrivassi a casa e perché continuava a dirmi di chiedere ai miei di accompagnarmi.

I miei lavoravano e non avevano tutto questo tempo a disposizione per farmi da autista.

In fondo, però, amavo quel lato protettivo del suo carattere: non si era mai posto come un prevaricatore nei miei confronti, perché il suo prendersi cura di me era quasi in punta di piedi e non soffocante.

-Mi sta morendo il telefono, ti richiamo appena arrivo a casa - lo avvisai, prima che cadesse la linea e lui potesse rispondermi.

Sorrisi nella sciarpa che mi ero passata intorno al collo e mi copriva fino al naso, annebbiando leggermente i miei occhiali da vista.

-Ehi, ciao - una voce maschile mi colse del tutto di sorpresa, alzai lo sguardo e mi trovai di fronte a un ragazzo alto, muscoloso, completamente rasato, col naso rosso per il freddo.

-Ti conosco? - chiesi, aggrottando la fronte.

-Sono un amico di Claudio.

-Oh, - risposi, infilandomi in tasca il cellulare - l'ho appena sentito.

-Davvero? - Si avvicinò di un passo e feci un passo indietro: non mi piaceva quando le persone invadevano il mio spazio personale o mi toccavano - E che ti ha detto?

-Voleva sapere se fossi già arrivata a casa. Sono quasi a casa.

-Si preoccupa sempre così tanto per te... - lasciò a metà la frase, quasi volesse aggiungere qualcosa.

Ok, questo tipo non mi piaceva.

-Lo so, è il migliore - dissi con convinzione, stringendo in tasca il telefono.

-Da quanto state insieme? - fece all'improvviso e non potei fare a meno di guardarmi intorno: la strada era deserta.

-Sei un suo amico, dovresti saperlo.

-Non parla molto di te, sai, ti tiene lontana da noi ragazzi e... adesso capisco il perché - si avvicinò ancora e tutti i miei sensi si misero in allerta: quello non era un amico di Claudio, anzi, forse faceva parte di quella banda di disgraziati contro cui non faceva altro che litigare. Poteva tenermi all'oscuro su tante cose, ma non ero stupida e, quando vedevo i lividi sul suo viso sapevo che mi nascondeva fin troppo.

Lui si vergognava, diceva che non era nulla, ma sapevo che o era stato suo padre, o uno della gang rivale.

E questo ragazzo, il suo modo di fare, quella voce melliflua e sgradevole, l'aria sbruffona che lo faceva sembrare il classico quarterback dei film americani per adolescenti, mi dicevano che non poteva essere un amico di Claudio.

-Stammi alla larga, non ti conosco - gli intimai, stendendo il braccio e mettendo un po' di spazio tra di noi.

-Ti ho detto che sono un amico di Claudio, non ti basta?

-Se sei così amico con lui, chiamalo adesso, perché voglio che sia lui a dirmelo.

-Vuoi che lo chiami? - chiese con uno sgradevole sorrisetto divertito, si infilò una mano in tasca e ne estrasse un telefono - Lo faccio subito - digitò velocemente un numero e, dopo qualche secondo in attesa, disse semplicemente: - Ciao Claudio, che piacere sentirti, ehi, stai calmo, devo raccontarti una cosa che potrà interessarti molto. Indovina chi ho incontrato per puro caso stasera mentre facevo due passi? No? Aspetta un secondo.

Mi passò il telefono e lo appoggiai all'orecchio:

-Claudio?

-Nicole? - il tono sorpreso della sua voce, quella pausa che lasciò tra ciò che disse dopo e l'isteria delle frasi successive mi fecero gelare il sangue -Oddio, scappa, Nic, scappa, urla, vai via da lui, corri! - mi strillò come un pazzo al telefono. Le mie intuizioni erano corrette: quello non era per nulla un amico di Claudio e, presa dal panico, la prima cosa che mi venne in mente fu di tirargli addosso il telefono, così da prendere un po' di vantaggio su di lui.

Il ragazzo, pur di non far cadere il cellulare a terra, con quello che costavano, fece qualche movimento per prenderlo al volo, dandomi il tempo di scattare a correre verso casa.

-Dove scappi, bella? - mi chiese subito dopo, non troppo turbato.

Girai l'angolo e vidi in lontananza il palazzo dove abitavo: mancava poco, ma sentivo anche i suoi passi pesanti a pochi metri alle mie spalle.

Con un grido terrorizzato, mi gettai tra le braccia di uno sconosciuto comparso dal vicolo alla mia sinistra.

-La prego, mi aiuti: c'è qualcuno che mi insegue! - alzai lo sguardo e il signore, un uomo baffuto sulla cinquantina, mi guardò corrugando la fronte.

-Dove? Fammi vedere - mi voltai e feci in tempo a vedere il bomber del ragazzo svanire nella direzione opposta rispetto a dove eravamo: come una bestia feroce che aveva fiutato un pericolo maggiore, si era fatto indietro, ritirandosi nel buio.

-È scappato via - riuscii a dire, balbettando.

-Stai bene, è tutto a posto? - chiese l'uomo, prendendomi per le spalle.

-Sì, grazie - annuii, inspirando a fondo per calmarmi - non so come ringraziarla.

-Figurati, abiti lontano? - solo allora mi resi conto che quell'uomo teneva sotto al braccio un rotolo di fogli scritti fitti fitti, dei temi: doveva essere un professore di italiano.

-No, laggiù - gli indicai il palazzo.

-Beh, per sicurezza ti accompagno - ci incamminammo insieme verso casa - per la prossima volta, chiedi di essere accompagnata da qualcuno, la prudenza non è mai troppa.

-Oh, lo farò, mi creda, lo farò sul serio.

A casa, richiamai immediatamente Claudio per tranquillizzarlo, senza fare capire ai miei cosa fosse successo, perché non volevo spaventarli.

Da quel giorno in avanti, non andai mai più in palestra da sola, ma preferii farmi accompagnare dal mio gruppo di amiche.

Senza tempo - TERZO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora