1997 - Samantha

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Gabriel si era messo a letto presto e dormiva già da ore, temevo che stesse covando la febbre, perché, quando avevo provato a sentirgli la fronte, mi era sembrato caldo.

Ovviamente lui s'era ritratto nemmeno lo avessi bruciato: non amava molto il contatto fisico e con me era sempre scostante.

Aveva diciannove anni, era normale che mi tenesse alla larga, dopotutto ero solo la mamma noiosa e petulante che tentava di controllarlo senza riuscirci e che gli faceva mille raccomandazioni. Sarei stata per sempre preoccupata per lui: non avevo altra scelta.

Dal primo momento in cui avevo saputo di essere incinta, quell'istintivo senso di protezione che provavo nei confronti del mio preziosissimo esserino non aveva fatto altro che crescere. Mi sarei buttata nel fuoco per lui, avrei ucciso senza battere ciglio, avrei dato la mia stessa vita senza pensarci su neanche due secondi.

Il mio cellulare prese a squillare, cogliendomi di sorpresa.

Afferrandolo, lessi sul display il nome di Claudio, ma la chiamata finì bruscamente, ben prima che potessi rispondere.

Lo richiamai subito.

-Samantha?

-Claudio, mi hai chiamata?

-Mi... mi deve essere partita per sbaglio - la sua voce aveva uno strano accento impastato.

-Stai bene? - non mi rispose e lo incalzai - Dove sei?

-Non lo so. - disse così a bassa voce che stentai a sentirlo.

-Non sai se stai bene o non sai dove sei? - chiesi col cuore in gola.

-Entrambe le cose. Ho bevuto. Mi fa male tutto.

-Ok, adesso siediti e descrivi dove sei.

-Una strada, non è tanto lontano da casa tua.

-Dimmi il nome della via - me l'appuntai su un pezzetto di carta e presi le chiavi della macchina - non ti muovere da lì, sto arrivando.

-È tardi, non uscire di casa per me - borbottò in modo quasi incoerente.

-Lo so che è tardi, ma non ti lascio a dormire per strada con questo freddo - gli risposi perentoriamente. Scrissi un bigliettino per Gabriel, caso mai si fosse svegliato e non mi avesse trovata in casa.

Infilai al volo il cappotto, le mani gelate e l'ansia e la paura di non sapere cosa gli fosse successo.

Perché era ubriaco? E perché non era a casa?

Era l'una e mezza, troppo tardi anche per lui che era notoriamente un nottambulo. Conoscevo i numerosi problemi della sua ricca famiglia, sapevo che suo padre lo picchiava e che sua madre era inesistente. Sapevo tutto, perché Claudio si appoggiava a me come l'unica figura adulta sulla quale potesse fare affidamento. Sapeva che poteva parlarmi a cuore aperto, perché non avrei mai tradito la sua fiducia: non avrei mai raccontato ad anima viva le sue confidenze e c'erano cose che nemmeno Gabriel sapeva.

C'erano cose che era meglio Gabriel non venisse mai a sapere.

Mentre guidavo verso l'indirizzo che mi aveva dato Claudio, quasi senza accorgermene, iniziai a tremare e non sapevo se fosse per il freddo di un marzo inclemente o per la preoccupazione che provavo per lui.

Gabriel e Claudio erano amici da diversi mesi e fin dal primo momento in cui aveva messo piede in casa mia, avevo provato qualcosa nei confronti di quel mascalzone dal sorriso solare. Gli volevo bene come a un figlio e, saputo della sua famiglia, avevo sentito in me ancora più forte il mio naturale senso istintivo di protezione nei suoi confronti. Claudio non aveva nessuno che si preoccupasse per lui: non aveva nessuno che controllasse che avesse mangiato a sufficienza, che si vestisse in maniera adeguata, che si riposasse e gli desse una guida, una direzione. Era solo, nel mondo, perché il padre era troppo occupato, mentre la madre era assente e semplicemente non le interessava.

Così l'avevo preso io sotto la mia ala protettiva, perché ero fatta così: avevo tanto amore da dare e, in fondo, riconoscevo nella disperazione di Claudio, spesso celata dietro a un sorriso e una battuta, qualcosa che mi ricordava di Patrick, il grande amore della mia vita.

Non gli pensavo più tanto spesso, anche se, per anni, non avevo pensato ad altro. Mi rimproveravo ancora di non essere stata in grado di salvarlo, di fargli capire che poteva mollare la presa e fidarsi di me, che insieme potevamo costruire qualcosa. Aveva preferito andarsene, perché aveva paura delle responsabilità, perché non era pronto a Gabriel, che, per lui, avere una figlia era già troppo. E così se n'era andato, di nascosto, senza dirmi neanche addio, derubandomi dei pochi soldi che avevo racimolato tra un lavoretto e l'altro.

Mi aveva rovinata, ma, probabilmente, era stato giusto così. Mi aveva dato Gabriel e Gabriel, per me, era molto più importante di lui, più importante di tutto. E ora, quando lo guardavo, rivedevo in lui la fotocopia non rovinata di Patrick: Gabriel poteva essere diverso.

Era diverso.

Lo vidi subito, seduto per terra, l'aria disfatta, sporco, chiaramente ubriaco, il volto segnato dai lividi.

Parcheggiai la macchina, volando quasi fuori.

-Claudio! - lo chiamai, correndo nella sua direzione. Lui alzò gli occhi verso di me: aveva pianto molto e stava piangendo ancora.

Lo presi tra le braccia, aiutandolo ad alzarsi.

-Mi fa male tutto - mormorò con la voce rotta.

-Chi ti ha picchiato? È stato tuo padre? - si limitò ad annuire, così sconvolto da non riuscire ad aprire la bocca - Ma, come? Perché?

Non riuscivo a capire come un padre potesse ridurre un figlio in quelle condizioni: non solo Claudio era completamente indifeso e vulnerabile, ma aveva anche subito un pestaggio in piena regola.

-Lui ci crede davvero... - si appoggiò a me e temetti che saremmo caduti tutti e due per terra: non aveva la stazza di Gabriel, ma era comunque molto più grande e pesante di me.

-Crede a cosa?

-Che mi porti a letto Gabriel per un pasto caldo o dei vestiti puliti.

-È ridicolo - protestai, tenendolo sù e, contemporaneamente, cercando di aprire la portiera.

-Lo so, ma era drogato e non ragionava.

-Non lo giustificare, per favore - mi resi conto del tono tagliente della mia voce, non volevo che pensasse ce l'avessi con lui: ero furiosa nei confronti di Laerte.

-Non lo giustifico, è che è fatto così. Non sarò certo io a cambiarlo.

-Non devi più bere così tanto, poteva succederti qualcosa di brutto stasera.

Mi fissò in silenzio, gli occhi gonfi privi di vita, come se niente al mondo potesse più importargli.

-A lui non interesserebbe.

-Non dire così - anche se temevo avesse ragione, perché per Laerte i figli erano solo merce da esposizione, niente di più.

-Devo accettare la realtà: se morissi domani, per lui non cambierebbe niente, perché, tanto, ai suoi occhi sono già morto. Sono morto perché l'ho deluso, perché non sono alla sua altezza, perché non basto, non sono mai stato abbastanza.

-Nessuno sarà mai alla sua altezza, secondo i suoi standard.

-Non è vero - ribatté con un mezzo sorriso che lo fece sembrare più giovane - Chloé è la prescelta, io sono solo un inconveniente. Non sarei mai dovuto nascere, ecco qual è la verità. Forse, non sono nemmeno suo...

-Claudio... - cercai le parole giuste per consolarlo.

-Non ti inventare una bugia per essere gentile - fissò gli occhi davanti a sé e avrei tanto voluto trovare qualcosa di intelligente da dire, ma non riuscivo a pensare ad altro che, a diciannove anni, non si dovrebbe mai essere così soli e disperati.

-Vieni a stare da noi - sbottai di impulso. Mi guardò come se fossi impazzita - Perché non ci ho pensato prima? Ti trasferisci da noi, dovrai adattarti a stare in camera con Gabriel, ma non ci saranno problemi. Tu, in quella casa, non torni più.

Non potevamo permettercelo, dato che a malapena sbarcavamo il lunario con il mio stipendio da segretaria e il piccolo guadagno di Gabriel all'officina, avrei di nuovo dovuto chiedere una mano a Lorenzo, ma non importava.

Non avevo altra scelta: Claudio aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui e di credere che, per lui, esistesse ancora una speranza.

Senza tempo - TERZO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora