1976 - Lorenzo

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Francesco mi passò lo spinello e inspirai a fondo, chiudendo gli occhi e bloccando tutto il mondo fuori.

Un mondo che mi stava, lentamente, soffocando.

Non stavo andando da nessuna parte e i continui conflitti in casa mi stavano uccidendo.

Mi ero appena diplomato e i miei insistevano che andassi all'Università.

Non che ci fosse niente di male.

Solo che loro avevano già progettato tutto il mio futuro e io non avevo nessuna voce in capitolo: non potevo parlare o dire la mia, dovevo semplicemente fare tutto quello che era necessario affinché, a settembre, iniziassi la facoltà di Giurisprudenza.

Ecco, questo era ciò che volevano da me.

Papà era uno tra i più rinomati avvocati della città, lavorava per lo studio più potente e conosciuto e, grazie al suo lavoro, aveva fatto crescere mia sorella e me tra agi e lussi.

Voleva semplicemente che seguissi i suoi passi e, anche qui, a ben vedere, non c'era nulla di male, ma quando gli avevo detto che avrei preferito non proseguire gli studi, perché non mi sentivo portato e proprio non mi ci vedevo, nelle vesti di re del foro, aveva dato il matto.

Sul serio, aveva avuto una reazione del tutto spropositata: pugni al muro, piatti rotti, mamma in lacrime.

Fortunatamente, Sam non era in casa quel giorno, perché era uscita con un'amica.

La piccola, adorata, perfetta cocca di papà.

Non avrei mai voluto che fosse presente a vedere il tracollo di una famiglia che restava insieme solo per il buon nome che portavamo: papà era un dispotico traditore seriale e mamma un'ombra della donna che era stata un tempo. Io ero un pessimo bugiardo che voleva far credere di essere sempre all'altezza di tutto, ma che, in realtà, si sentiva rinchiuso in gabbia. Samantha non doveva sapere come andassero male le cose tra di noi: era troppo giovane per subire tutte quelle pressioni, non meritava di nuotare nella merda come avevo scelto di fare io.

Da quel pomeriggio di inutili drammi, niente era più stato come prima: mamma non faceva altro che piangere, senza nessuna reazione concreta, nemmeno una parola di conforto. Papà, invece, non mi parlava: era come se non esistessi più, come se fossi scomparso dalla faccia della terra.

Probabilmente, pensava che se avesse tenuto duro, avrei ceduto e mi sarei piegato ai sensi di colpa, iscrivendomi all'Università.

Quel poveraccio non sapeva che stavo già lavorando come meccanico per un mio amico che aveva un'officina in periferia.

Quella era la mia strada, quello era ciò in cui ero bravo, non certo a studiare leggi, cavilli e preparare requisitorie. Avevo una visione disincantata del lavoro di mio padre: sapevo che aveva evitato il carcere a chi doveva finire in galera, solo perché lo avevano pagato tanti soldi.

Non ero così, non sarei mai stato così: non sarei stato un burattino tra le sue dita, non un fantoccio da manovrare, non uno schiavo dei suoi desideri.

Annebbiato dal fumo e da un hashish molto più forte di quanto mi aspettassi, la testa mi prese a girare in modo spaventoso, la vista mi si annebbiò e finii quasi dritto per terra.

-Ti ha preso male, Lor - fece una voce alle mie spalle, non sapevo di chi: alcune delle persone che mi circondavano non erano miei amici, non avevo idea di chi fosse la casa in cui mi trovavo, perché a me importava solo lo sballo, il divertimento a basso costo, l'evasione da una realtà che era diventata troppo soffocante per essere ancora accettabile.

-Questa roba è pesante - borbottai, rendendomi conto di avere la bocca impastata.

Qualcuno rise, di una risata stupida e ubriaca.

Eravamo tutti fatti, senza nessuna esclusione.

Quello era un po' il motivo ricorrente delle nostre serate: alcol, sballo e sesso. Ci aiutava il fatto che fossero gli anni '70 e nessuno pensava mai alle conseguenze.

-Arrivata dal Pakistan la scorsa notte - rispose la stessa voce senza volto. Mi venne da vomitare.

-Sì, Pakistan, come no. Magari era pakistano quello che te l'ha venduta - suonavo come un cazzo di ubriaco.

Invece, ero solo fatto.

Dovevo riprendere in mano la mia vita: negli ultimi mesi avevo rapinato due tabaccherie e portato a termine tre scippi, coi soldi mi ero comprato una moto. Che idiota.

Avevo iniziato a spacciare, roba di poco conto, ma d'altronde si iniziava sempre così.

Ero circondato di gente che mi doveva un sacco di favori: in pochissimo tempo, da studente di liceo, ero diventato il capobanda di una delle gang più pericolose della città.

Non avevo idea di come fossi arrivato a quel punto, cosa mi avesse portato lì, quale strada tortuosa avessi percorso, ma adesso tutti avevano paura di noi, tutti mi conoscevano, nessuno osava contraddirmi. In alcuni giorni riuscivo a malapena a respirare, in altri mi sentivo davvero il re del mondo.

La cosa assurda era che non avevo chiesto quella vita o quel destino: probabilmente, qualcuno, una sera, mi aveva offerto del fumo e mi ero lasciato trascinare. Solo che ora la cosa mi aveva preso la mano e dai micro reati, ero passato ai crimini veri, roba per cui potevo finire in galera e sai che risate si sarebbe fatto mio padre, se fossi finito al gabbio?

Non ne andavo orgoglioso, tutt'altro.

Ogni mattina, quando mi risvegliavo con le tasche gonfie di soldi e la puzza di una donna a buon mercato addosso, mi dicevo che dovevo trovare un modo per uscirne. Solo che non sapevo come e , in fondo, tutti quei soldi mi tornavano comodi.

Bei vestiti, bella vita, belle donne, belle auto. La droga. Lo champagne. La musica alta.

Nella mia testa avevo un progetto chiarissimo: mi sarei lasciato tutto quello schifo alle spalle, avrei lavorato sodo e lasciato l'officina per aprirne una mia. Sarei andato a vivere da solo. Se Sammy avesse incontrato le mie stesse difficoltà con i nostri genitori, l'avrei aiutata. Mi sarei trovato una brava ragazza, una che non mi facesse temere di aver preso la gonorrea: no, una pulita.

Avrei costruito il mio futuro.

Sì, ero un ribelle, ma la vita che stavo conducendo era troppo anche per me.

Alla fine, volevo l'indipendenza, ma non ero disposto a rischiare la mia salute, o la vita, perché io, in tutta onestà, non stavo bene: quando non ero fatto, ero così ubriaco da non capire dove mi trovassi, cosa stessi facendo, chi mi stessi facendo.

Quel sesso a buon mercato, quello stile di vita mi avrebbe portato sotto terra alla velocità della luce: non avrei vissuto a lungo, se avessi continuato a vivere in quel modo.

Le cose dovevano cambiare, in fretta.

Mi sarei tenuto buoni gli amici di quel periodo e, al momento giusto, avrei chiesto loro una mano se mi fossi trovato in difficoltà: non erano persone che volevo contrariare o indispettire, era meglio tenersele care, specialmente nella mia posizione che era quella di qualcuno che aveva aiutato tutti indistintamente, anche chi non se lo meritava.

Mi toccai la tasca dei pantaloni, dove avevo infilato la mia pistola, pregai di aver messo la sicura, perché ero così fatto che, se avessi controllato, probabilmente avrei finito per spararmi in un ginocchio.

Feci un altro tiro e questa volta caddi davvero per terra: sdraiato come un tappeto, guardai semi-incosciente il soffitto di quella casa che non conoscevo e mi chiesi quanto a fondo dovessi ancora scavare per toccare il fondo e rendermi conto che, da lì, potevo solo risalire.

Senza tempo - TERZO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉDove le storie prendono vita. Scoprilo ora