Ero così grossa che temevo di non passare più attraverso le porte.
Da quando abitavo con Lorenzo, ogni cosa si era, al tempo stesso, complicata e resa più semplice: non dovevo più rendere conto ai miei genitori o sopportare i loro sguardi di disapprovazione, ma, al quarto piano di un palazzo fatiscente senza ascensore, all'ottavo mese di gravidanza, tutto diventava insormontabilmente difficile.
Non potevo confinarmi in casa, non volevo murarmi viva in quelle quattro mura dentro alle quali mio fratello mi aveva accolta, insieme a Patrick che andava e veniva a seconda di come cambiava il tempo: mancavano ancora due mesi al parto e non avevo voglia di seppellirmi ad annoiarmi e basta, in attesa che il bambino nascesse.
O la bambina.
Non avevo idea di quale sesso avrebbe avuto la creatura che portavo in grembo: mi avevano raccontato che una madre lo sa, una madre se lo sente, ma io non sapevo nulla e non sentivo proprio niente. A malapena mi rendevo conto del sorgere del sole, o del calar della sera.
Negli ultimi giorni ero sempre stanca e dormivo con un'incredibile facilità, cosa insolita per una come me che aveva sempre sofferto d'insonnia.
Patrick, dopo aver abbandonato il circo, era una costante anima in pena: non avevo ben capito come impiegasse le sue giornate ma, di certo, non andava a fare un regolare lavoro dalle nove alle cinque, dato che usciva di casa a mattina inoltrata e spesso rientrava a casa quando già dormivo da ore, a notte fonda. Potevo solo sperare che non si cacciasse nei guai, che non stesse facendo niente di sbagliato.
Ancora due rampe di scale e sarei arrivata: il dottore mi aveva consigliato di camminare perché, in effetti, avevo bisogno di un po' di movimento, data la quantità mostruosa di peso che avevo accumulato. Quelle scale, però, mi spezzavano il fiato nei polmoni e, verso la fine, quasi ero costretta a far leva sul corrimano, pur di trascinarmi in avanti.
Mi fermai, sbuffando: rimpiangevo il bel palazzo dei miei, con l'ascensore che tintinnava ogni volta che raggiungeva un piano. Rimpiangevo poco altro della mia vita "di prima", perché, malgrado tutte le difficoltà, malgrado le ristrettezze economiche e il drastico giro di vite che avevo dato alle mie aspirazioni, ero molto più felice. Avrei voluto che anche Patrick fosse partecipe della mia felicità: avevamo un bambino in arrivo, tutta la vita davanti, Lorenzo ci avrebbe aiutato a metterci in carreggiata.
Cosa poteva andare storto?
Sapevo che Patrick avesse un animo indomabile, ribelle, inquieto e, in fondo, sapevo anche che non avesse del tutto smesso con le droghe: solo la settimana prima, avevo trovato delle pastiglie nel doppiofondo della custodia della sua chitarra, ma non gli avevo detto nulla, perché non riuscivo fisicamente a gestire l'ennesima lite.
A volte, si faceva prendere la mano e diventava qualcuno che stentavo a riconoscere.
A volte, capitava che mi picchiasse.
Non potevo dire niente a Lorenzo, per il semplice fatto che ero certa che l'avrebbe ammazzato: poteva dire quello che voleva, ma sapevo che non avrebbe permesso a nessuno di toccarmi, men che meno a Patrick, di cui, oggettivamente, non aveva un'alta opinione.
Lorenzo aveva mille difetti, ma non mi aveva mai fatto mancare affetto, protezione e sostegno e, quando tutti, perfino i miei stessi genitori, mi avevano voltato le spalle, lui era stato lì, ad attutire la caduta.
Feci gli ultimi gradini praticamente senza fiato, fermandomi un'ultima volta per calmare il cuore in gola. Dalla borsa, presi le chiavi di casa e le infilai nella toppa, facendole girare una, due, tre volte: non c'erano mandate sufficienti a tenerci al sicuro, in quel maledetto quartiere in mano alla malavita e alla droga, terreno fertile per il mio fragile, insicuro ragazzo col vento nel cuore.
-Patrick? - lo chiamai nel buio. Continuai a chiamarlo ancora, una, due, quattro volte, di stanza in stanza, tutte immerse nel buio più totale, nel silenzio più assordante.
Il mio cuore non smetteva di battere furioso nel petto e non perché fossi ancora accaldata dalla salita delle scale. No, c'era altro, c'era qualcosa di molto più sottile che mi inquietava e mi faceva sentire come se mi mancasse l'aria nei polmoni.
Non c'era.
Non c'era più.
Non c'era più niente, le sue cose erano tutte sparite.
Corsi, a fatica, di camera in camera, chiamando forte il suo nome, pregandolo, implorandolo: io e suo figlio eravamo qui, come poteva essersene andato?
Quello non era un tradimento, era una coltellata alla schiena e la ferita sanguinava lacrime, sudore e fango.
Ero finita, era tutto finito.
Senza di lui, non sapevo cosa fosse l'amore, senza di lui non ce l'avrei mai fatta, era impossibile.
Il mio cuore era fragile e doveva essere trattato con cura, mentre lui l'aveva calpestato, ignorato, deriso, preso in giro: aveva preferito fuggire piuttosto che aspettare di vedere la faccia di nostro figlio.
Avrebbe avuto i suoi occhi chiari, il suo temperamento focoso, la mia attitudine al comando, i miei capelli biondi? Ero spaventata, col cuore a pezzi e disperata: come avrei fatto a gestire tutto quel casino da sola?
Non c'era via d'uscita, non c'era assoluzione o salvezza: ero perduta, avevo diciotto anni ed ero incinta, il mio ragazzo mi aveva lasciata e ora ero sola con me stessa.
Io e il mio bambino.
Mi lasciai scivolare contro la porta chiusa della camera da letto e scoppiai a piangere, disperata.
Non importava il mio cuore, non importavano i miei sentimenti: avrei fatto a meno di Patrick, ci avrei fatto i conti, ci avrei preso le misure, me ne sarei fatta una ragione.
Dovevo pensare al mio bambino, al mio futuro.
In fondo, una parte di me che avevo soffocato fino a quel momento lo aveva sempre saputo: sapevo che Patrick non era uno che poteva restare, perché non solo non sapeva farlo, ma perché non lo voleva. Non mi aveva mai capita davvero, non si era mai sforzato di farlo: gli piacevo, ma non era abbastanza. Patrick era un mondo a parte al quale non avevo accesso e non era solo una questione di barriere linguistiche, di differenze sociali e culturali.
La verità era che lui non avrebbe mai dato accesso al suo cuore a nessuno: era incapace di amare, mentre io avevo così tanto amore, dentro di me, che per tutto quel tempo mi ero convinta che sarebbe stato in grado di essere sufficiente per entrambi.
Ma non era così e ora lo capivo a mie spese.
Ora potevo piangere e strapparmi i capelli, potevo disperarmi e commiserarmi come un'anima in pena, perché Patrick mi aveva lasciato a zero e ora dovevo iniziare da niente, ma, dopo un bel pianto liberatorio, avrei ripreso in mano la mia vita e ricominciato da zero.
Sarebbe stato difficile, ma non impossibile: mi sarei rimboccata le maniche e avrei provato al mondo che potevo farcela anche da sola, che sarei stata in grado di avere il mio bambino, mantenerlo, educarlo e renderlo felice. Avrei trovato un modo per cavarmela nella vita, per essere forte anche di fronte a tutti i calci nel sedere che mi avrebbe dato la vita, anche di fronte al trovarmi sola, incinta, tradita dal grande amore della mia vita.
Per il momento, avrei pianto e basta, perché avevo proprio bisogno di fare quello.
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Senza tempo - TERZO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉ
RomanceAttraverso gli anni, seguiamo le vicende dei protagonisti di Un gioco da ragazzi e Dalla mia parte: conosciamo meglio Chloé, Gabriel e le persone che sono state e stanno loro vicini. Attenzione, occorre prima leggere almeno uno dei due romanzi per c...