Quella sera si sarebbe tenuta l'ennesima festa di Laerte e Morticia: la casa era stata tutto un fremito fin dalle prime luci del giorno, con camerieri che correvano di qua e di là come galline a cui avevano tagliato la testa e continuano scioccamente a correre, la grassoccia organizzatrice dell'evento che impartiva ordini ad alta voce, l'entourage di Morticia che le si affannava intorno per renderla più bella e gradevole della matrigna di Cenerentola.
Laerte, invece, si disinteressava di tutto, troppo figo per preoccuparsi di quelle sciocchezze, costantemente al telefono, osservava il brusio in casa con un certo distacco, guardando tutti dall'alto verso il basso: ovvio, quelle erano occupazioni da donna, era Morticia che doveva badare ai dettagli, non certo il comandante del vascello.
Da in cima le scale, precisamente sull'ultimo scalino in alto, io e Chloé sbirciavamo tutto con un misto di divertimento, disgusto e stupore, perché molte cose non ci erano proprio chiare, mentre altre erano davvero da fuori di testa.
I nostri genitori non erano come tutti gli altri e, anche se avevo solo dodici anni, per me era un dato di fatto abbastanza ovvio.
Le vedevo, le mamme dei miei amici, e non erano come la mia, che era sempre troppo presa da se stessa, o troppo strana per accorgersi di noi. Sopra le righe, volubile, indomabile, viziata, capricciosa, distratta. Le altre madri potevano anche non essere belle e alla moda come lei, ma si capiva subito che erano delle mamme. Per capire che lei era mia mamma bisognava davvero essere degli attenti osservatori.
E, per quanto gli altri padri potessero anche essere impegnati come il mio, Laerte era completamente diverso da tutti loro.
Avevo dodici anni, non ero mica scemo.
-Andate a letto! - ci gridò Morticia come un'isterica, passandoci accanto. C'era un'altra cosa che la rendeva diversa da tutte le altre madri: si vestiva sempre come se stesse ancora sfilando. Per quella sera aveva indossato un drammatico vestito di uno dei suoi stilisti preferiti, una specie di tovaglia a strisce bianche e nere che le fasciava il corpo, coprendole tutta la spalla destra e che aveva un ridicolo fiocco bianco gigantesco sul davanti, i capelli biondi tirati all'indietro in una crocchia severa, orecchini grandi come lampadari e un paio di scarpe rosse con un tacco che la faceva sembrare alta due metri.
-Mamma, ma sono le sette - protestò Chloé, che non riuscì a cogliere al volo la mia occhiata di ammonimento. Gloria si fermò di colpo al terzo gradino e si girò a guardarla come se non riuscisse a credere alle sue orecchie.
-Cos'hai detto?
-Sono le sette, è presto per andare a dormire - abbassò la voce in un sussurro. Aveva ragione, aveva sacrosanta ragione, perché Morticia, ovviamente, non sapeva che non avevamo nemmeno ancora cenato. Se non fosse stato per Maria, la nostra cameriera personale, avremmo saltato il pasto, perché secondo lei noi dovevamo andare a letto.
-Hai capito che abbiamo una festa, sì? - si chinò leggermente verso Chloé, che si ritrasse contro di me - Riesci ad afferrare il concetto? È semplice, non credi? Dimmi, ce la puoi fare?
Il suo fiato, a trenta centimetri dai nostri volti, puzzava di alcol e fumo di sigaretta e mi fece girare lo stomaco. Chloé era sull'orlo delle lacrime, perché non riusciva in nessun modo a ottenere un briciolo di affetto da una donna che non sapeva come amare altri al di fuori di se stessa.
Era sempre così impegnata a divertirsi, a truccarsi, a parlare al telefono con le amiche, a comprarsi vestiti e a bere.
Beveva tanto. Troppo.
Le presi al volo la mano e Chloé restituì la mia stretta con una dolorosa morsa di panico.
-Ha capito, abbiamo capito, leviamo le tende - la tirai in piedi e mi obbedì, docile come una bambola.
Ci guardò soddisfatta, raddrizzandosi e dandoci le spalle.
Restammo qualche secondo a vedere il modo elegante che aveva di camminare, poi mi distrassi, perché avevo visto quella camminata sinuosa, elegante, quando sfilava, la chiamavano la Regina di Ghiaccio, perché sul suo volto bellissimo non trapelava mai un'emozione.
E non esisteva definizione migliore, per quella donna maledetta.
-Perché fa così? - mi chiese Chloé, turbata, con gli occhi pieni di lacrime.
-Perché è fatta così.
-Non le ho fatto niente e noi dobbiamo davvero ancora mangiare.
-Lo so, non è colpa tua: non è colpa tua se è fatta così - le accarezzai i capelli - non ti preoccupare, appena inizia la festa, usciamo a vedere che combinano.
-E se ci vedono?
-Credi che potrebbero mai accorgersi di noi? - chiesi alzando un sopracciglio. Lei scoprì i denti in una risata infantile e mi abbracciò di slancio.
-Ti voglio bene, 'Etto - roteai gli occhi al suo soprannome per me, che mi stava appiccicato da quando aveva imparato a parlare.
Le arruffai i capelli, non sapendo se prenderla in giro o darle un bacio: eravamo io e lei, insieme da sempre, soli contro il mondo, a sostenerci quando le cose diventavano difficili. Mi sarei sempre preso cura di lei, perché sapevo che non lo avrebbe mai fatto nessun altro al mio posto e nemmeno volevo che qualcuno prendesse il mio posto. Nutrivo nei suoi confronti un senso di protezione che andava oltre a tutto, oltre a tutti: avrei fatto qualsiasi cosa per renderla felice, perché se lo meritava, perché spesso mi chiedevo se lo fosse e avevo paura di darmi una risposta.
A volte mi rendevo conto che amarla in quel modo faceva quasi male, perché avrei voluto proteggerla per sempre, starle per sempre accanto, difenderla da quel mondo brutto in cui eravamo costretti a vivere.
Chloé era timidissima, fragile e sembrava, in apparenza, spaventata da tutto: guardava il mondo con i suoi occhioni blu e tutto sembrava stupirla, perché si affacciava al mondo per la prima volta e guardava ogni cosa senza conoscerla. Era uno splendido foglio bianco sul quale poteva essere scritta la storia migliore, la più bella, anche in mezzo al casino tremendo in cui quei due scellerati la stavano facendo crescere.
Non fosse stato per me, non riceveva calore umano, perché quello che ci davano le nostre cameriere era un affetto pagato e, spesso, frutto di commiserazione: lo vedevo nei loro sguardi, nelle mezze parole sussurrate alle nostre spalle, in quelle occhiate compassionevoli di chi sapeva bene in quali condizioni versasse la nostra famiglia a pezzi. Aveva pochissimi amici, perché era timida e credeva di essere impacciata e non all'altezza, ma io sapevo bene che, prima o poi, sarebbe diventata più forte. Aveva solo bisogno dello sprone giusto.
Ci chiudemmo in camera per un po', per non dare fastidio "ai grandi" che, al piano di sotto, si drogavano e bevevano champagne, baciandosi nelle stanze più remote di casa nostra, mentre io e Chloè, col pigiama addosso, giocavamo a carte e sbocconcellavamo il pasto ormai freddo che ci aveva portato la cameriera.
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Senza tempo - TERZO INSTALMENT DELLA STORIA DI GABRIEL E CHLOÉ
Roman d'amourAttraverso gli anni, seguiamo le vicende dei protagonisti di Un gioco da ragazzi e Dalla mia parte: conosciamo meglio Chloé, Gabriel e le persone che sono state e stanno loro vicini. Attenzione, occorre prima leggere almeno uno dei due romanzi per c...