Senza speranza

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Alphaios muoveva la testa a scatti, cercando, tra le molte persone che aveva attorno, l’alta figura del figlio di Zeus “Eracle! – chiamò – Dove sei?”
Subito Nikandros gli fu accanto “Non c’è, non ha fatto in tempo a entrare. Dopo di te nessuno ha varcato le porte”.
“E allora aprite! – gridò il vecchio, furibondo, in direzione di Laodamante, che nel frattempo era sceso dalle mura e lo guardava con aria interrogativa – Lo avete lasciato fuori!”
“Non è possibile, – rispose il sovrano sbarrando gli occhi – sono certo che stesse per passare la soglia quando la bruma lo ha sommerso definitivamente, celandolo al mio sguardo. Per quale ragione avrebbe dovuto fermarsi?” concluse perplesso.
Alphaios non voleva sentir ragioni “Riaprite subito, altrimenti…” minacciò alzando il suo bastone e puntando gli occhi fiammeggianti sul re.
Laodamante fece per aprir bocca, quando una voce orrenda e graffiante parve parlare all’intera città “Dove sei, piccolo dio? Sento il tuo fetore… non basterà questa fragile nebbia a celarti alla mia furia…”
Il tono era basso, eppure le parole arrivarono alle orecchie dei tebani come pronunciate da uno dei presenti.
“Chi parla?” chiese il sovrano guardandosi attorno.
“Maestà – chiamò uno degli arcieri rimasti sul ciglio delle mura – è quella cosa che sta avanzando. Sembra una… una donna…” concluse incerto e con voce tremante.
“Non hai il coraggio di mostrarti, codardo mezzosangue? Allora verrò a prenderti io…” minacciò gelidamente l’orribile voce.
“Per gli déi! – urlò qualcuno dai bastioni – Sta crescendo! Colpitela!”
Dal basso, Alphaios, Laodamante e gli altri poterono solo assistere al lancio di frecce verso l’esterno da parte dei soldati tebani. Un grugnito gutturale, profondo, rimbombò come una piccola esplosione. Un rumore ritmico, simile al battere poderose ali, frustò l’aria, mentre una macchia scura fendeva la nebbia oltre le merlature dei bastioni.
Gli arcieri, i primi a vedere chiaramente la mostruosità che calava su di loro, morirono tanto rapidamente da entrare nell’Ade con gli occhi ancora sbarrati per il terrore. Qualche soldato si gettò verso l’interno della città, stramazzando al suolo pur di non finire vittima dell’essere che stava sorvolando la polis. Un atavico timore scese sui cuori arditi dei tebani, trasformandoli in vigliacchi e fuggitivi.
L’abominevole creatura, che in un battito di ciglia aveva fatto strage delle guardie sulla cinta, atterrò nel bel mezzo dello spiazzo ove gli uomini erano radunati, schiacciando chiunque avesse la sventura di trovarsi sulla sua strada.
Sbigottito, Alphaios alzò gli occhi verso l’alto, incrociando le pupille infuocate e crudeli del mostro. In quel preciso istante capì con chi avevano a che fare.
Un drago antico e imponente, generato dal Tartaro e da Gea: Delphine.
Il mostro si rimpicciolì, assumendo le sembianze di una donna dalla coda di serpente. La testa allungata, coperta da capelli d’un rosso incandescente, gli occhi taglienti, le braccia nervose e le lunghe dita ornate di artigli la facevano sembrare quasi più pericolosa che nella sua forma di drago.
“Dove lo nascondete? Consegnatemelo, e me ne andrò, lasciando ad altri il compito di insozzarsi le mani col vostro sangue impuro”.
Menodora, riavutasi dalla sorpresa iniziale, fece per estrarre una freccia dalla faretra, ma Alphaios la fermò. “Aspetta” le disse sottovoce. Poi, dandosi un tono ironico, proseguì “Delphine, come sta tuo fratello? E’ ancora impegnato a leccarsi le ferite dopo l’ultima lezione ricevuta da Zeus?”
La donna scoprì i denti affilati, in un sorriso che non aveva nulla di amichevole “Tu mi conosci…” rispose arrotolando sinuosamente le spire della coda.
“Muori bestia!” gridò Laodamante, cercando di approfittare del fatto che il mostro gli voltasse le spalle. Il sovrano calò la spada di traverso sulla schiena di Delphine, ma questa, senza nemmeno girarsi, fece scattare la coda e gli avvolse il braccio in una stretta potentissima, costringendolo a mollare la spada. Poi si degnò di rivolgersi a lui “Ti chiamano re? Come può fregiarsi del titolo di sovrano un essere tanto inferiore”.
Laodamante non riuscì a rispondere: le spire gli serrarono il busto, stritolandolo come fosse la preda inerme di un pitone.
Alphaios vide l’incarnato olivastro del re tebano perdere colore. Gli occhi scuri, spalancati, quasi si sforzassero anch’essi di cercare l’aria che i polmoni non potevano assorbire, davano tutta la dimensione della paura e della sofferenza provate dal coraggioso sovrano.
Il vecchio pensò che senza Eracle era tutto perduto. Osservò il suo bastone; perché aspettare? Sarebbero morti comunque.
Ormai deciso, fece un passo verso il nemico, ma sentì un tocco al gomito, quasi un ammonimento. Cosa lo aveva sfiorato?
Delphine si passò la lingua sulle labbra, godendo nel vedere la vita abbandonare Laodamante “Fatti vedere, figlio bastardo di Zeus. – sibilò – Lasci morire gli altri per te? Scappi come quel vigliacco di tuo pad…”
La donna allentò immediatamente la presa, lasciando crollare il re a terra, e si portò le mani alla gola. Come impazzita, iniziò ad agitarsi in modo frenetico. Alphaios, aiutato da Menodora e Passalo, accorse in aiuto di Laodamante. Con un gesto che sorprese l’anziano, Passalo si caricò il sovrano agonizzante in spalle, cercando di metterlo in salvo nell’edificio più vicino. La coda di Delphine, che guizzava folle mentre la titanessa si dimenava apparentemente senza ragione, costrinse i pochi impavidi che ancora non erano fuggiti ad allontanarsi per non essere travolti.
D’improvviso, Delphine iniziò a mutare, trasformandosi nuovamente nell’orrendo drago che aveva superato le difese tebane. Nel disperato e costante tentativo di liberarsi dalla forza invisibile che la stava strangolando, abbatté numerose abitazioni ove i cittadini tebani si erano rifugiati all’apparire della creatura. Grida di dolore e sofferenza, come un triste canto, iniziarono ad accompagnare il macabro ballo della sorella di Tifone. Nonostante i tentativi di resistere al potere che la soverchiava, la testa squamosa del drago si piegò progressivamente sempre più indietro, fino a quando uno schiocco secco anticipò il crollo al suolo del mostro.
Il corpo enorme di Delphine giacque tra i detriti delle costruzioni che aveva abbattuto: il collo spezzato, piegato a formare un angolo innaturale, e la lingua rossa e ruvida, lunga alcuni piedi, penzolante, abbandonata tra le fauci.
Sconvolti, coloro che avevano assistito allo spettacolo fuoriuscirono dai loro nascondigli, ancora increduli per il favorevole sviluppo degli eventi.
Quando sollevarono gli occhi a osservare la bestia, una figura umana, con un alto elmo da guerra sotto il braccio, stava in piedi, trionfante, sul ventre del drago, a simboleggiarne la sconfitta. Più che dall’uomo, che ben conosceva, Alphaios fu attirato dall’elmo, tanto meraviglioso da essere degno di un dio.
L’elmo di Ade.

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