Imboscata

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"Chi... chi sei?" balbettò l'eroe.
"Il mio nome è Erittonio – rispose l'uomo senza abbandonare il cipiglio – e sono il sovrano di Atene".
"Atene? – disse Eracle confuso – Come sono giunto qui? Ricordo... una spiaggia... il mare e... Alphaios!" gridò balzando in piedi.
Il movimento fu troppo brusco per il suo fisico ancora convalescente. La vista gli si annebbiò e dovette aggrapparsi al re per non cadere.
"Devi riposare. Il tuo corpo non è ancora guarito del tutto".
"Ma io devo andare! Mio padre... l'uomo che era con me, è stato catturato... dai due figli vigliacchi di Ares..." protestò.
"I figli di Ares? Pensi di affrontarli così? Se non ci fosse stato un dio, dentro di te, nemmeno il sangue di Medusa ti avrebbe ricondotto qui dall'Ade".
L'espressione interrogativa dell'eroe, sedutosi sul piano di marmo che ne aveva custodito le spoglie mortali, fu evidentemente abbastanza eloquente, poiché Erittonio iniziò a spiegare "Mia madre, Atena, mi regalò tempo addietro due fiale contenenti poche gocce di sangue. La prima conteneva quello fuoriuscito dalla parte sinistra di Medusa, e ha il potere di guarire. L'altra boccetta, avendo raccolto il sangue del lato destro della gorgone, ha invece il potere di uccidere".
"Mi hai riportato indietro dall'Ade..." mormorò Eracle, quando immagini scure e confuse di ricordi simili a sogni gli tornarono alla mente.
"È così, ma temevo di sprecare le preziosissime gocce donatemi da Atena, perché tu ormai eri morto da tempo e, nonostante le dicerie, nemmeno il sangue di Medusa può riportare in vita un trapassato".
"Ti sbagli. Io ero morto, te lo assicuro. Ricordo l'oltretomba. E coloro che vi dimorano" soggiunse, pronunciando le ultime parole con dolore quasi tangibile.
"Te lo ripeto, Eracle: c'è un dio in te, per questo non sei morto. Non completamente, almeno." insistette Erittonio.
"Vuoi dire che devo la vita alla mia natura semi divina?"
Il re scosse la testa "Nemmeno quella ti avrebbe salvato. Io ritengo che in te dimori un dio, e che egli sia rimasto vivo nel tuo corpo quando la tua anima era nell'Ade. Questo ha permesso alle gocce della gorgone di fare effetto e trascinarti nuovamente tra i viventi".
Eracle era sbalordito. Non sapeva se ridere per le folli parole del sovrano o credere veramente a ciò che egli stava dicendo.
"E chi sarebbe questo dio?" domandò.
"Io non posso saperlo, solo tu sei in grado di dare questa risposta".
L'eroe provò una sgradevole sensazione nel pensare che qualcuno potesse usare il suo corpo. Guardò negli occhi del re, cercando un accenno di inganno o follia. Ma non ne trovò.
Decise comunque che Erittonio aveva torto, per quanto non volesse contraddire colui che lo aveva riportato in vita, anche se, si rese conto, probabilmente sarebbe stato meglio restare tra le ombre.
"Il cavallo che mi ha condotto qui, Arione. Dov'è adesso?"
"Era ferito. – gli disse in re in tono costernato – È colpa nostra che lo abbiamo scambiato per un nemico. Una lancia lo ha colpito al collo..."
Eracle temette il peggio. Balzò su, stavolta senza indecisioni, e afferrò il re per la veste "Cosa avete fatto al mio cavallo?" sbottò sentendo la furia, e con essa le forze, crescere dentro di sé.
Erittonio si affrettò a rispondere "È salvo! Noi non..." accennò, ma subito si interruppe perché Eracle, lasciandolo andare, si era avvicinato alla finestra, attirato dalle grida che giungevano dal basso.
"Il tuo cavallo sta bene – riprese il re, massaggiandosi il collo arrossato – Si trova nelle stalle reali, dove sta facendo lo stallone con tutte le giumente che gli passano a tiro. Oltre ovviamente a mangiare quanto un'intera mandria".
Eracle fece un cenno a Erittonio, dandogli le spalle. Aveva compreso le sue parole, ma quanto stava accadendo nella piazza, sulla quale la finestra forniva un'ampia veduta, ne attirava irresistibilmente l'attenzione.
Il re gli si avvicinò, spiegandogli la ragione del baccano "Hanno colto sul fatto qualche ladruncolo. Visti i tempi che corrono, per quanto non mi piaccia, ho dovuto inasprire le pene. Stanno per giustiziare altri disgraziati".
L'eroe batté il pugno sul davanzale "Per l'Olimpo! Sono loro! – gridò volgendosi verso Erittonio – Arresta i tuoi carnefici, re. Conosco quei due, e per quanto formino una coppia di combina guai, non meritano una pena tanto severa".

Nikandros arrestò il cavallo, obbediente all'ordine di Arkadios, il comandante del drappello. Passare attraverso la nera foresta che avevano di fronte avrebbe permesso loro di accorciare il viaggio, ma anche di rendere vita facile a eventuali aggressori. Nulla si presta di più a un'imboscata di un fitto bosco, e Arkadios questo doveva saperlo bene. Si consultò infatti con Myron, il suo secondo, prima di fare cenno alla piccola compagnia di procedere.
"Ma fate attenzione, – li mise in guardia – mi prude il naso. E quasi sempre questo significa grossi guai. Tu, Nikandros, ti voglio al centro del gruppo. Myron, prendi la prima posizione, io chiuderò la carovana".
Il principe di Oropo seguì le indicazioni di Arkadios, anche se in cuor suo si sentiva trattato come un bambino. I guerrieri di Tebe, in ogni occasione, mostravano di non fidarsi di lui, cercando di evitargli qualsiasi pericolo. La scarsa considerazione nei suoi confronti iniziava a deprimerlo e demotivarlo. Adesso cominciava a dubitare della sua scelta di unirsi alla missione, scelta che lo aveva trasformato in un inutile fardello per i coraggiosi soldati tebani.
"Vi ho mai raccontato..." iniziò a dire Auxentius, l'anziano del gruppo. Le sue storie, divertenti e incredibili, rendevano meno tedioso il viaggio, anche perché erano fonte di scherzose battute da parte dei compagni che non credevano alle mirabolanti imprese del vecchio guerriero.
Quando giunse a narrare di quella volta in cui dovette fuggire inseguito da dieci bellissime ninfe innamorate, gli sforzi per resistere all'ilarità non furono più sufficienti, ed esplosero tutti in una fragorosa risata. Auxentius, come al solito, fece finta di offendersi, e se la prese con Karpos, il più giovane della comitiva dopo Nikandros. Recitando il proprio copione, Karpos si schermì "Perché te la prendi con me? Sono l'unico che crede a tutte le assurdità che racconti". Un'altra pioggia di risa fece da corollario alle parole del giovane, che si volse verso Nikandros, strizzandogli l'occhio sotto la zazzera bionda.
Un grido di aiuto spezzò in un istante l'atmosfera rilassata.
Myron si arrestò, imitato dai compagni. Le urla provenivano dal folto del bosco. Non si riusciva a scorgere nulla.
D'improvviso, una figura pallida sbucò dalla selva, correndo all'impazzata fino a bloccarsi di fronte alla cavalcatura di Myron. Il tebano estrasse la spada, pronto a colpire, ma fu lesto a fermare il gesto a mezz'aria, riconoscendo chi aveva di fronte.
Si trattava di una giovane, alta e dai lineamenti delicati. Indossava una veste stracciata all'altezza della spalla, che teneva sollevata con le mani nel pudico tentativo di coprirsi i seni.
L'apparizione turbò non poco l'animo dei soldati.
"Vi prego, – esordì la ragazza con voce rotta dal pianto – aiutateci. Io e la mia famiglia siamo stati aggrediti da un gruppo di briganti! Vi supplico, soccorreteci!"
Myron non aprì bocca, rivolgendosi al fondo della carovana. Arkadios, dopo un momento di riflessione, rispose "Non possiamo fermarci ad aiutare tutti i disgraziati che troviamo sul nostro percorso. Abbiamo delle priorità. Ci dispiace..." concluse parlando alla ragazza.
Nikandros era scandalizzato "Ma siete tebani o femminucce? Abbandonate così i bisognosi? Se ci fosse Eracle..."
"Eracle? Il prode figlio di Zeus? È con voi?" chiese la ragazza, avvicinandosi a Nikandros.
Il principe scosse la testa in segno di diniego. La giovane si accostò allora ad Arkadios "Quindi non ci aiuterete?" lo apostrofò. Il suo tono si era fatto gelido.
"Non possiamo" confermò il comandante.
"Allora peggio per voi!" disse la ragazza. Le labbra si tesero in un ampio sorriso crudele, prima di mostrare i denti appuntiti. Con sorprendente velocità, balzò al collo di Arkadios, sfoderando artigli lunghi e affilati. Trapassò il petto del tebano, il quale non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa stesse accadendo. Sprofondò tra le ombre, quasi incosciente di ciò che lo aveva ucciso.
"Empuse!" gridò qualcuno, mentre balzavano fuori dagli alberi altre mostruose donne assetate di sangue. Una azzannò al collo Karpos; il ragazzo cadde al suolo, gli occhi sbarrati sull'orrore che ne aveva troncato l'esistenza, mentre tra i capelli dorati un rivolo scarlatto scorreva via insieme alla vita che lo abbandonava. L'empusa si nutrì del sangue del giovane; quando non vi fu più nulla di cui fare scempio, alzò gli occhi verso Nikandros, notando con grande sorpresa che non c'era più nessuno sul suo cavallo che scalciava terrorizzato.
Si guardò intorno, ma nella confusione dello scontro non riuscì a capire dove fosse andato a finire quel giovane le cui carni dovevano essere tanto tenere. Forse qualche sorella lo aveva già aggredito. I suoi occhi fiammeggianti si posarono allora su un guerriero che le dava le spalle, mentre cercava di difendersi dall'attacco congiunto di due nemiche. Si trattava di una facile preda. Si protese verso la nuca dell'uomo, allungando le affusolate dita artigliate.
Fu l'ultima cosa che vide: una spada comparve dal nulla, recidendole di netto il capo. La mostruosa testa rotolò tra le gambe di un'altra creatura. Anche questa però non riuscì a comprendere cosa stesse accadendo, prima che la stessa spada, fluttuando con mortale eleganza, le trapassasse il costato da parte a parte. L'empusa si afflosciò, priva del crudele soffio vitale che l'aveva animata.
Le demoniache creature, che fino a un attimo prima stavano avendo la meglio, indietreggiarono, consapevoli che qualcosa di soprannaturale le stesse contrastando. Ciò restituì coraggio ai tebani, che iniziarono a prendere il sopravvento. La spada animata roteò nuovamente, staccando arti e mozzando teste, fino a quando l'ultima ancella di Ecate giacque ai piedi di Myron.
Quattro tebani erano rimasti al suolo accanto alle loro assassine, il sangue umano che si mischiava a quello profano delle orrende creature.
I guerrieri si arrestarono, rapiti dalla spada vivente che li aveva salvati da morte certa. L'arma, ancora stillante sangue, puntò per un istante verso il cielo, poi si conficcò rabbiosamente al suolo.
Accanto a essa ricomparve Nikandros. L'espressione furibonda del giovane, che teneva nella mano sinistra l'elmo di Ade, fece correre un brivido lungo la schiena di Myron, le cui labbra si mossero, dando voce a una domanda "Chi sei veramente, ragazzo?"

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