Due missioni

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Eracle accarezzò il cavallo donatogli da Laomedonte. Era un destriero meraviglioso, persino più bello di quelli che avevano perduto Menodora e Nikandros. Sperava di poterlo restituire sano e salvo al suo proprietario, quando avesse portato a compimento il suo dovere.
Sistemò le bisacce con le provviste, e legò saldamente alla cavalcatura la sacca nella quale aveva nascosto l’elmo di Ade.
“Sono pronti anche loro. Se fossi in grado, li benedirei” gli disse Alphaios seduto sul suo cavallo, indicando con il mento il compatto gruppo di soldati a poca distanza da loro.
Il drappello, formato da dodici uomini oltre a Nikandros, sarebbe partito alla ricerca di rinforzi per l’esercito di Tebe. Per combattere contro l’armata sovrannaturale che stava radendo al suolo le polis greche, i soldati avrebbe dovuto trovare alleati sovrannaturali. Eracle era combattuto; avrebbe desiderato con tutto il cuore partire con loro, ma non poteva partecipare contemporaneamente a due missioni. Le decisioni prese durante la riunione cui aveva partecipato la sera precedente nel palazzo del re, nella quale Hestia si era manifestata anche a Laomedonte, prevedevano che lui e Alphaios percorressero la strada che Atena aveva tracciato per loro, mentre gli uomini avrebbero dovuto, da soli, trovare aiuto per fermare l’esercito oscuro che incombeva su di loro. Laomedonte aveva scelto i più coraggiosi e fidati combattenti tebani, per questa missione che, in fondo, solleticava anche il mai domo spirito d’avventura del figlio di Zeus.
I cavalieri gli sfilarono accanto, salutandolo. Egli rispondeva dicendo loro che si sarebbero coperti di gloria. In fondo al drappello, Nikandros arrestò per un attimo il cavallo di fronte a lui. Eracle gli poggiò una mano sul ginocchio, per fargli forza. Il ragazzo sospirò. Si vedeva quanto avesse paura, anche se non dava segni di voler recedere dalla sua decisione.
Quando Laomedonte aveva chiamato i valenti guerrieri per quella missione mortale, Menodora si era offerta di parteciparvi. Eracle si era opposto con fermezza, guadagnandosi l’astio della principessa. Nikandros si era allora proposto come tredicesimo cavaliere, forse per non sfigurare a confronto della gemella, ma anche in questo caso Eracle si era detto in disaccordo. Si rendeva conto che nei confronti dei due giovani aveva un comportamento, se non paterno, certamente da fratello maggiore, ma non poteva farne a meno. Con sua sorpresa, invece, Hestia aveva dato il suo assenso, dicendo che Nikandros era di stirpe reale e abbastanza grande da decidere il suo destino. Il sovrano di Tebe, convinto dalla dea, aveva accolto la richiesta del principe di Oropo, e ciò aveva fatto infuriare ancora di più Menodora.
“Puoi rinunciare. – tentò di dissuaderlo – Non è un disonore. Lo sarebbe abbandonare tua sorella”.
Nikandros gettò lo sguardo in direzione del tempio di Hestia. Sui gradini che davano accesso al tempio, Menodora li osservava, immobile. La dea comparve alla sua destra, passandole con fare consolatorio un braccio attorno alle spalle. Persino da quella distanza si intuiva che la giovane avesse gli occhi gonfi di pianto.
“Credo di lasciarla in buone mani. Sai Eracle, prima di conoscerti pensavo che sarei diventato un sovrano e avrei regnato sui miei sudditi dal palazzo reale. Ritenevo fosse la cosa più desiderabile al mondo, ma adesso non ne sono così certo. Mi sento destinato a qualcosa di più di una vita seduto su un trono. Spero tu capisca”.
Lo capiva perfettamente. “Buona fortuna, principe” gli disse sorridendo.
Prima che spronasse il cavallo, però, lo richiamò “Nikandros, aspetta! – disse staccando la sacca con l’elmo di Ade dal suo destriero e porgendogliela – Tieni. Fanne buon uso”.
“Ma Eracle…” il giovane non riuscì a spiccicar parola.
“Non te lo sto regalando. Mi aspetto che tu me lo renda, al tuo ritorno. Avanti, vai, ti stanno aspettando”.
Il ragazzo chinò il capo e raggiunse i compagni.
“Bella iniziativa. Quell’elmo ci serviva” lo criticò Alphaios appena il principe fu distante.
“Sarà più utile a lui. E poi io cosa dovrei temere? Ho Zeus accanto a me” rise l’eroe.
Alphaios scosse la testa, ma non riuscì a trattenere un sorriso “Andiamo prima che tu decida di regalare anche i sandali…”
Eracle balzò sul cavallo. Alzò un braccio a salutare Hestia e Menodora. La dea, che non era una combattente, sarebbe rimasta a dare forza ai cittadini greci. Il suo spirito non si trovava solo tra loro. Era presente anche a Sparta, che resisteva disperatamente al nemico, come ad Atene e in ogni altro luogo vi fosse un focolare, rinsaldando l’unione delle famiglie e delle istituzioni. Mentre Hestia rispose al saluto, Menodora si volse a guardare altrove.
“Le passerà” lo consolò Alphaios.
Eracle si strinse nelle spalle. Era stato giovane anche lui.
Laomedonte e una delegazione di nobili erano schierati alle porte cittadine, per salutare i partenti. L’eroe spinse il cavallo a fianco del sovrano, ma questi si arrestò richiamato da un membro della sua guardia reale “Maestà, ci sono tre cavalli che si stanno avvicinando alle mura”.
Delphine aveva terrorizzato gli uomini a tal punto che anche la sagoma di un cavallo distante era considerata una minaccia.
Laomendonte gli lanciò un’occhiata interrogativa, quasi una muta domanda su cosa dovessero fare.
“Va bene, vado io. – lo tranquillizzò – Fai aprire le porte quel tanto che basta a consentirmi di uscire, poi richiudile immediatamente. Comunque non credo ci sia nulla da temere, non è mai accaduto che un cavallo entrasse in città a causar stragi”.
Il sovrano diede ordine di lasciar uscire l’eroe, il quale, facendo cenno ad Alphaios di attenderlo perché sarebbe tornato subito, varcò le porte.
Appena al di fuori della città si fermò, ammirato. A poca distanza, i cavalli di Menodora e Nikandros stavano immobili ai lati di un altro destriero, molto più alto, slanciato e dalla chioma nera come una notte senza stelle. Era talmente bello da essere degno di un dio.
Aveva qualcosa legato sul dorso, ma non era possibile intuirne la natura perché l’oggetto era completamente coperto da una sorta di fasciatura verde.
Fece un paio di passi, lentamente, sperando che il cavallo nero non fuggisse. Il destriero scuro lo osservava con un’espressione annoiata nei due occhi quasi umani “D’accordo che i tebani non sono particolarmente conosciuti per l’ospitalità, però tutta questa diffidenza mi pare eccessiva. Vi ho riportato indietro questi due che scappavano come forsennati e non mi offrite neanche il pranzo?”
Eracle sbatté le palpebre. Stava sognando o il cavallo aveva parlato veramente?
“Cos’hai detto?” domandò, sentendosi però un po’ stupido a parlare con un equino.
“Anche sordi oltre che maleducati? Ho detto che… un momento, non posso crederci. Eracle! Questo è un segno del fato!”
Il cavallo parlava. E lo conosceva, persino. Forse stava impazzendo.
“Cos’è quella faccia, cugino? Non mi riconosci più?”
Cugino?
Il destriero si avvicinò, strusciandogli il muso sul petto.
In quell’istante, brandelli di memoria riaffiorarono. Benché confusi e incostanti come lampi, i ricordi gli mostrarono la lotta con un gigante sputafuoco figlio di Ares. In quell’occasione, accanto a lui, c’era quel cavallo, nato da Poseidone e Demetra.
“Arione!” gridò accarezzandogli la criniera.
“Non posso credere di avere avuto tanta fortuna, – disse il cavallo intervallando parole e nitriti – ero venuto a Tebe senza molte speranze di trovarti, invece sei tornato a casa. Menomale, ero stufo di portarmi dietro questo peso” concluse indicandosi il dorso con la testa.
“Cos’è?”
Arione dondolò il capo “Non lo so. Un vento impetuoso me lo ha lasciato, ordinandomi di consegnartelo”.
Il terzo vento. Ne mancava ormai solo uno all’appello. Di cosa si trattava?
Eracle tolse l’oggetto dalla groppa del cavallo. Era un arnese lungo quanto una lancia, che terminava con qualcosa di molto più ampio di una punta. L’aspetto che però lo incuriosiva di più era rappresentato dalla fasciatura di alghe marine che ne costituiva la custodia.
Lo prese con delicatezza, staccando le alghe con attenzione. Il manico si rivelò istoriato di immagini che riproducevano le imprese del dio Poseidone.
Quando liberò anche l’estremità, per quanto incredibile, comprese ciò che aveva di fronte.
Arione saltellò sulle zampe “È il tridente di mio padre! Non se ne separa mai. Perché te lo ha donato? E perché con un giro così tortuoso invece che dartelo direttamente?”
Non aveva risposta per i quesiti del cavallo, ma una cosa ormai era chiara. Atena gli stava facendo pervenire armi e alleati divini come non mai, e ciò poteva avere un solo significato.
Avrebbe dovuto affrontare il peggior nemico che avesse mai minacciato l’Olimpo.

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