Il supplizio

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Prometeo

Il titano che trafugò il fuoco, rubandolo tra le vette dell'Olimpo, per donarlo agli uomini.

Colui che aveva tanto amato la razza umana da sfidare l'ira di Zeus.

Il signore degli déi, per quell'affronto, aveva deciso per lui una punizione esemplare: incatenato a un'enorme roccia, fu condannato al martirio, perché ogni giorno una gigantesca aquila calava dall'alto per divorargli il fegato, tra atroci sofferenze.

All'alba del nuovo giorno, Prometeo si risvegliava integro, col fegato intatto, pronto per essere nuovamente torturato dal maestoso animale simbolo di Zeus.

Questa sofferenza infinita sarebbe dovuta durare per l'eternità, se non fosse stato per l'eroe Eracle. Il figlio di Zeus e Alcmena, giunto in Scizia, dove il titano era incatenato da ormai tremila anni, lo aveva liberato uccidendo l'aquila con una freccia.

Il Titano aveva in seguito riguadagnato i favori di Zeus e con essi la libertà.

Questo è ciò che raccontano gli uomini, che hanno dimenticato il loro debito nei confronti del gentile titano che permise loro di elevarsi dal rango di scimmie a quello di razza senziente più promettente della propria porzione di universo.

La razza umana, troppo gretta e ignorante, perse presto di vista le sorti del suo sommo benefattore. La cui storia, contrariamente a quanto si credette, non era ancora conclusa...

Una leggera corrente, appena più forte di quelle che lo sferzavano di continuo, lambendolo crudeli con il loro tocco glaciale, gli indicò che il momento era giunto.

Avesse avuto le qualità del fratello di suo padre, il potente Crono, sarebbe stato in grado di misurare il trascorre del tempo, e prevedere con precisione l'ora del supplizio.

Ma, in fondo, a cosa sarebbe servito? Forse era meglio così.

Tentò di spostarsi, nel vano tentativo di presentare alle fameliche fauci del mostro il fianco destro. Come sempre, non fu in grado di muoversi, schiacciato dalla forza delle catene che lo tenevano bloccato sulla parete di roccia e dalla pressione delle migliaia di metri di acqua che lo separavano dalla superficie.

Anche quel giorno, dunque, uno dei mostri alla cui mercé era stato abbandonato, lo avrebbe azzannato, squarciandogli il petto per banchettare col suo cuore divino.

Il buio assoluto, simile alle profondità oscure degli spazi celesti che accompagnavano Urano, il progenitore dei titani, quando vagava per l'universo, gli impediva di riconoscere la sagoma dell'essere che lo avrebbe violato per l'ennesima volta.

Con quali modalità sarebbe stata portata a compimento la sua tortura? Sarebbe stato azzannato da una chiostra di denti appuntiti? Lo avrebbe trafitto da parte a parte un gigantesco pungiglione? O forse, prima di scavargli il ventre con un becco aguzzo, l'abominevole creatura avrebbe giocato con lui, stritolandolo con poderosi tentacoli?

Le cangianti modalità con le quali sarebbe stata portata a compimento la sua punizione erano l'unica cosa che gli consentiva di comprendere che non stava rivivendo, come racchiuso in una ruota, sempre lo stesso identico giorno.

Provò ancora una volta a sondare i suoi ricordi, alla ricerca di una ragione che giustificasse quanto gli stava accadendo.

Rammentava la sua vita passata, l’amore per gli uomini, i contrasti con Zeus, la punizione per il furto del fuoco. Non riusciva però a far luce su quello che era accaduto in seguito alla sua liberazione e al perdono di Zeus. La sua condizione era di tale sofferenza che rimpiangeva persino il suo precedente supplizio: dai picchi del Caucaso poteva infatti sentire il vitale calore di Helios, poteva almeno respirare l’aria limpida che gli carezzava i capelli. A volte, aguzzando la vista, gli pareva quasi di scorgere, a molte leghe di distanza, le città degli uomini brulicare di vita.

Cosa poteva aver fatto per meritare di essere scaraventato nelle più buie e fredde profondità dell’oceano, indifeso di fronte a mostri tanto formidabili?

Il familiare dolore lancinante di fauci che si chiudevano voraci sul suo ventre lo fece urlare. Nell’inchiostro nero che lo circondava, il suono si propagò assordante e distorto.

La bestia scavò nelle sue viscere, cercando la via del cuore, e facendogli anelare di essere mortale.

L’icore candido liberato dalle sue ferite salì verso l’alto, sfiorandogli le guance e donandogli una fugace sensazione di calore, unica pallida percezione benefica prima che la creatura raggiungesse il centro pulsante del suo essere, divorandolo senza pietà.

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