Insonnia

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ATTENAZIONE: E' presente un contenuto sensibile e scene di violenza fisica.

«Sam, ti senti bene?» le chiese Lucas gentilmente, trovando il volto della ragazza decisamente più pallido del dovuto: era chiaro che qualcosa non andasse, sia dalla postura rigida che l'espressione malinconica del viso, ma soprattutto dal tremolio che non riuscì a nascondere; infine cadde sulle ginocchia e si prese la testa tra le mani, mentre calde lacrime la macchiavano di ricordi e ripeteva frasi sconnesse, di cui nessuno riusciva a decifrarne il significato. Lucas chiamò i medici, cercò aiuto in ogni stanza, ma si intuiva cosa le stesse accadendo: era un'altra delle sue crisi. Solo da tre settimane si trovava lì e ormai ogni paziente di quella clinica conosceva il problema di Sam, o per lo meno solamente gli effetti, pochi ne sapevano la causa. Samantha Joseph era la ragazza di appena 16 anni a cui il mondo aveva deciso di sottoporre ad alcune delle torture più orribili di quel pianeta; ma per la gente che la guardava  era semplicemente una pazza con delle crisi di panico quotidiane, alcune più intense di altre, che la portavano ad uscire di testa, non solo in senso figurato. Lucas era uno dei pochi, tre in particolare, a conoscere i dettagli della sua tragica storia, e per questo non si stupiva della sua reazione, non se ne capacitava anzi come lei riuscisse ancora a camminare e ad assomigliare a una ragazza normale, in qui brevi momenti di lucidità. Bastava un attimo però, una frase allusiva o un oggetto a cui ci si riferiva, che Sam veniva catapultata in quella notte di due mesi fa, facendola piombare nel buio più totale in balia di certe emozione che nessuno dovrebbe mai provare, nessuno. Sam non era affatto una ragazza normale, non avrebbe mai potuto esserlo; quella notte l'aveva cambiata, l'aveva segnata per sempre, ed ora era lì: in una clinica per pazzi, meglio dire ospedale psichiatrico, con i medici che erano costretti a sedarla e ad imbottirla di pillole per far si che non impazzisse ancora. Servivano a ben poco quei medicinali, duravano a mala pena qualche ora, poi i ricordi prendevano nuovamente il possesso di lei e la sua reazione, seppur fosse successo mesi prima, era più che legittima per tutto quello che aveva subito. Inoltre, il pensiero di sua madre ancora in ospedale, non la faceva di certo sentire meglio, il tutto amplificato dalla mancanza della sorella minore, di soli dodici anni, che non poteva stare insieme a lei in quella clinica, troppo piccola per un ospedale del genere; a lei erano toccati gli assistenti sociali, le strutture per i bambini senza casa, orfani o con problemi gravi in famiglia. Non sapeva a quale categoria apparteneva la piccola Vicky: una casa ce l'aveva? Non proprio.
Era orfana? Non proprio.
Aveva problemi gravi in famiglia?
La vera domanda era: aveva ancora una famiglia? Non proprio.

Aprì gli occhi di scatto ma la luce accecante la costrinse a richiuderli, il dolore alla testa non era scomparso del tutto e una piccola benda le circondava l'avanbraccio. Cos'era accaduto? Non ricordava molto a causa dei farmaci. L'ultima scena che le venne in mente era decisamente impensabile per essere ridotta in quella maniera: lei e Lucas stavano andando in mensa quando a lui era scappata qualche parola di troppo che, seppur senza volerlo, l'aveva destabilizzata e non era più riuscita a connettere i pensieri al resto del corpo. La sua mente era stata offuscata da delle lettere inutili ma che la sovrastarono: adoro la cucina di notte. Già, anche lei adorava sgattaiolare dal letto quando tutti dormivano e recarsi in quella stanza piena di dolci e patatine. A volte ci restava per ore, fingendosi una chef importante o una mamma con la cena da preparare. Durante il giorno non aveva tempo, troppo presa per aiutare sua sorella a scuola o sua madre a lavorare, così le rimaneva la sera tardi e, se non era troppo stanca, la mattina presto al chiarore dell'alba. Ma quella notte il suo sogno era diventato lo scenario di un incubo. Continuava a sperare che, prima o poi, il suo corpo e la sua mente smettessero di reagire in quella maniera, per quanto fosse stata traumatizzata, era la prima a desiderare un modo per andare avanti, per non pensarci più. Ma la sua anima era stata marchiata a vita, e per quanto ci provasse, quella notte era impressa in lei come un tatuaggio indelebile, doloroso; sanguinava ininterrottamente, e lei, non poteva far altro che raccogliere i suoi ciocchi che ad ogni passo si staccavano dal suo debole cuore. Si guardò intorno, era nuovamente in quella squallida stanza bianca, dove ormai passava la maggior parte del suo tempo. La odiava, odiava tutti in quel posto, eppure non poteva dar loro la colpa del suo passato. I medici si sforzavano di farla sentire meglio, i pochi amici cercavano di alleggerirla in qualche modo, ma tutta quella farsa durava ben poco.

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