Il venti ottobre di un sabato pomeriggio

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P.S. l'episodio, seppur breve, tratta un tema delicato, spero sia comprensibile.

Vorrei poter non ricordare quel giorno, ma furono le ore peggiori della mia vita e non credo possano mai cancellarsi dalla mia mente. Pensavo di poterci riuscire, speravo di essere abbastanza forte, ma non lo ero e mi ero solo illusa di poter vincere. Avevo trascorso dei momenti bui, oscuri, traumatici, ma quello, quello era stato il tragitto verso l'inferno ed io mi ci trovavo senza scelta, costretta, trascinata da quelle catene di carne, di ossa, di una mostruosità disumana. E, mentre mi dimenavo, cercando una via d'uscita, la mia testa si era spenta, consapevole di ciò che sarebbe successo a seguire; non un aiuto, non un'occhiata, niente e nessuno era in grado di tacere quel tormento. Eppure, nonostante fossi io la vittima, cercavo tra i pensieri intrecciati e confusi una risposta all'accaduto, come se potesse esserci una corretta domanda. Vorticavano dentro di me, dispersi e sconvolti, impulsi che non sapevo di possedere, riflessi che non ero in grado di compiere, paure che mi perseguitavano ma che fino ad allora erano rimaste tali, astratte e timorose. Ero quasi arrivata, mancano poche decine di metri, ma il destino è sempre stato ingiusto con me, e non era da meno quel giorno, il venti ottobre di un sabato pomeriggio. Credevo di aver passato la giornata migliore da ormai mesi di solitudine, mi sentivo bene come non lo facevo da tempo e, a quanto pare, a qualcuno, lassù nel cielo, non andava che io potessi essere felice, anche solo per un attimo. Non mi sarei mai aspetta di finire in quel modo così triste, insensibile: un ricovero per minorenni, un ospedale psichiatrico, una gabbia di vetro rivestita di specchi, rivestita di facce, di volti, il volto di quel maledetto mostro che aveva deciso di poter porre fine alla mia vita senza il mio fottuto consenso, lasciandomi lì, abbandonata e sola, in quel fottuto vicolo deserto, privo di emozioni; io, ero priva di emozioni, io, ero senza nessuno, una parte di me era morta, io, ero morta e vorrei fosse stato veramente così, avrei preferito farla finita lì piuttosto che strisciare per chiedere aiuto, trascinare il peso di un corpo che non sentivo più mio, perché mio non lo era stato neanche un po'. Perché di mio non sentivo più nulla, nulla mi apparteneva e, più mi specchiavo in quei vetri sporchi, più non riuscivo a guardarmi, provando orrore, schifo, compassione; provavo pena per me stessa, per quell'aspetto disgustoso che suscitavo a chiunque mi guardasse negli occhi, e vedesse il buio che ci si celava, che si trovava nel mio sguardo vacuo, che mi spegneva il cervello e mi annullava la mente. Apatica, distaccata, smarrita, distrutta. Questi erano gli aggettivi che le persone utilizzavano per definirmi, i medici, gli psichiatrici, i preti, i familiari, e i miei genitori piangevano, mio padre piangeva, mia madre piangeva, mio fratello piangeva, tutti piangevano tranne me. Io solo negli incubi piangevo, quando nessuno mi vedeva, quando nessuno sapeva dove fossi o cosa facessi, proprio come era successo lì, in quella via, in quell'erba, in quel sogno che riempiva ogni mia notte. Non erano parole facili da immaginare, figurarsi poterle pronunciare. Non ero in grado di parlare, non mi sentivo capace o semplicemente non ne avevo le forze; non so cosa successe quando fui ritrovata in quel prato, inerme, svenuta. Non so chi mi portò in ospedale, non so chi informò la mia famiglia, non sapevo nemmeno chi cazzo fosse stato a lasciarmi lì, in quelle condizioni disastrose, svignandosela come un cazzo di vigliacco, un codardo senza palle, uno schifoso abominio. Non sapevo come mi fossi ritrovata in quel letto al profumo di lavanda, non sapevo chi mi avesse spogliata, chi mi avesse vestita, chi mi avesse ritrovata come un cadavere, una massa priva di energia, in rovina. Annientata, così mi sentivo. Ero stata prosciugata della mia vitalità, mi era stato tolto tutto in poco tempo, ed ormai non avevo la minima voglia di riprendermela, non avevo la voglia di rialzarmi, di riprendere il controllo, ero caduta troppo in basso e avevo perso la cognizione del tempo, tanto che provai ad uccidermi due volte, prima che mi legassero ad un letto e mi gettassero addosso un secchio di acqua ghiacciata, risvegliandomi dal quel sonno durato diciannove mesi. Non mi ero accorta si fosse fatto così tardi, non mi ero accorta di aver compiuto gli anni, non mi ero accorta di star soffrendo finché non mi vidi allo specchio e notai il mio volto, non più quello del mostro, e lessi nel mio sguardo parole che non avevo mai compreso prima di allora. Qualcuno era venuto a trovarmi, qualcuno si era sentito in colpa, qualcuno aveva addirittura pianto, ed io avevo deciso di tingermi i capelli di rosa, cambiare colore degli occhi e rendere il mio corpo, mio, amandolo un po' più alla volta, riscoprendo le mie debolezze e aumentando le mie sicurezze, consapevole del fatto che mai più nulla sarebbe stato come prima, ma, forse, non era del tutto un male.

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