Prima che io me ne andassi dal castello per conquistare le vette del monte degli Orchi, la vita si svolgeva naturalmente. Ricordo che io e i miei fratelli eravamo molto legati. Mia sorella, Raytalia, era un elfo alta due metri, con lunghi capelli rossi che spesso legava con un elastico formando una coda dei discendenti degli Agor. I cavalli sputa fuoco. Lei si allenava con le pattuglie minori d'addestramento. Era vietato alle donne allenarsi, ma diceva che era come un gioco per lei. Io le dissi non so quante volte che la guerra non era un gioco. E che la doveva prendere sul serio, ma lei mi rispondeva sempre con una risatina. Probabilmente non colse mai il mio messaggio. Ma andava bene così, perché era mia sorella e le volevo bene. Aveva gli occhi verdi grandi quanto le sue labbra ed un naso con la punta all'insù. Io e lei spesso giocavamo a un gioco che faceva di me o di lei l'attaccante di un plotone di soldati con il Re e uno di noi due, da guardia. Tutti noi usavamo spade di legno, per evitare di ferirci seriamente. Ricordo quella volta che toccò a me fare il Re, e lei a scegliere le armi. Scelse l'arco l'ungo, una sua specialità... l'aveva fatto costruire su misura per lei. Per gli allenamenti, alle estremità delle frecce c'era un tappo di gomma a rivestire la punta. Non riuscivo ad immaginare con quanta facilità eliminò il mio plotone, finché non me lo mostrò. Dalla mia parte avevo quattordici uomini pronti a dare la vita per difendermi. Ma lei li eliminò uno ad uno. Corse verso un soldato e gli diede un calcio frontale in pieno volto... Per fortuna aveva l'elmo, pensai ridendo sotto al naso. Poi gli scoccò una freccia sul petto per infine scappare, impugnare tre frecce e scoccarle, pensavo le avesse lanciate a casaccio, ma invece colpirono una dopo l'altra le mie truppe. A questo punto eravamo presi completamente dal gioco. I miei uomini si infuriarono e corsero verso di lei ed ella con una scivolata si fiondò dietro di loro e li eliminò tutti. Ora rimanevo solo io. Non potevo farmi sconfiggere facilmente. Anche se la sua bravura mi stupiva a dir poco. Era agile e veloce come le Cantadia. E non riuscivo a crederci. Corsi verso di lei impugnando arma e scudo. Lei scoccò qualche freccia ma io riuscii a pararle tutte con le mie difese. Arrivato vicino a lei le diedi un colpo di scudo che la fece cadere per terra. Piombai su di lei puntandogli l'arma al collo. «Ti arrendi?» le dissi, ma come risposta ricevetti solo un colpo agli stinchi. Adesso ero io per terra, con lei che mi puntava una freccia addosso.
«In guerra...» lei disse.
«E in amore.» io risposi... e poi insieme dicemmo: "Tutto è lecito". Per poi scoccarmi una freccia sul petto. Fu bellissimo e divertente, mia sorella che riuscì a battermi. Quasi non ci credevo.
Poi c'era mio fratello maggiore, Firyo, un elfo alto poco meno di me. Con corti capelli castano mogano e gli occhi color nocciola, piccoli quanto il suo naso. Un naso insolito per un elfo Alto. E ci scherzavamo sempre su dandogli del figlio di Gaia. Una cittadina di umani, quei pochi rimasti a sud-est di Elogard.
Io e lui spesso ci allenavamo insieme in duello. Con spade taglienti. Ci piaceva il rumore squillante che facevano al tocco di ognuna. E ci catapultava in un vero e proprio combattimento all'ultima parola: "Mi arrendo". Eravamo entrambi abili con la spada per cui era difficile che finivamo lo scontro se non in parità.
Poi c'ero io. Otharon, il figlio ribelle che utilizzava la magia di luce. Ricordo quella volta in cui partecipammo ai giochi del castello. Una lunga tradizione che si tramandava in anno in anno. Non erano altro che delle sfide che facevano di un torneo il luogo.
"Il gioco della bandiera". Consisteva nel portare una cima di stoffa in tre diversi punti del bosco. Con arbitri sui rami degli alberi a fare da guardia al torneo. Per primi a giocare toccava alla famiglia regale, cioè ai suoi eredi. Me, mio fratello e mia sorella. Tecnicamente lei non poteva giocare, ma si era allenata molto per quel torneo e non potevamo non farla gareggiare insieme a noi. Quindi in squadra eravamo in tre, contro plotoni armati di spade di legno e scudo. Ad ogni plotone il numero cresceva alla guardia del territorio, partimmo contro sette soldati. Poi quattordici ed infine ventuno. Mia sorella si affrettò ad arrampicarsi su un albero, per scoccare frecce dalla punta gommata. Il primo plotone lo eliminò praticamente tutto lei. Il secondo fu poco più difficile. Mentre mio fratello impugnava una Katana, la sua specialità, e si faceva spazio tra le truppe nemiche, io balzavo da un soldato all'altro infilzandoli con la mia spada. Alcuni nemici pararono i nostri colpi, ma distratti dai nostri attacchi, incuranti di mia sorella, li eliminò con frecce alle spalle. Una mossa che ci tolse qualche punto, perché non erano validi attacchi alla schiena. Ma poco importava. Se fossimo riusciti a guadagnarci anche la terza base avremmo raggiunto i primi tre posti del torneo. Ventuno uomini si affrettarono a venirci contro. Io e i miei fratelli eravamo ormai stanchi, ma eravamo determinati a vincere. Fin quando però un soldato non eliminò mio fratello. Lì per lì non era nulla di grave. Ma la tensione del gioco mi pervase, e lanciai un incantesimo intrappolante attorno ai soldati. Per poi eliminarli con facilità uno ad uno... Purtroppo però la magia non era ammessa, una regola che misero alla mia nascita, essendo l'unico degli Alti a dominarla. Così fummo squalificati dal torneo. E non ammessi al terzo gioco, la "Corsa coi carri". Che rende protagonisti le progenie degli Agor... Forse il gioco più pericoloso, soprattutto se i cavalli sputa fuoco non erano addestrati a dovere.
Questa era la quotidianità. Allenamenti per le difese del castello e per i giochi, c'erano veri e propri campioni che abbandonarono l'esercito per addestrarsi ogni giorno al torneo annuale. Campioni pronti a tutto per vincere, anche barare rivestendo le loro spade di metallo con del legno, rendere le armi più forti e pesanti e allo stesso tempo non insospettire gli arbitri. Un torneo che richiamava gente di ogni fazione. I Cantadia, i Gaia, i Bassi, i Lucenti... e con permessi speciali anche i Grigi e gli Orchi.
Poi c'erano i cittadini comuni, che talvolta si coprivano del ruolo di esploratori per cercare ricchezze su Elogard e venderle al mercato nero. Si poteva trovare cose inconcepibili. Scaglie di Agor, pelli della loro progenie, una specie in estinzione. Per cui la vendita di tale materiale era severamente punibile. Infine pozioni muta forma temporanee. In grado di trasformare chi le beve in ciò per cui era stata realizzata. Si potevano trovare anche pozione Meta-Alti, un infuso di acqua del Mar Ametista, che tramutava chi lo beveva in orrende creature, anche se per poco tempo.
Il castello era costruito per reggere qualsiasi attacco. Ben organizzato, con ampie colonne in pietra a farle da torre. Con sopra guardie che difendevano il castello da imminenti attacchi con cambi di turno giorno e notte. C'erano infine una recinzione in pietra che proteggeva i villaggi primari. Contenenti fabbri e falegnami. Poi c'era il villaggio secondario con mercanti e infine il villaggi terziari, con centinai di turisti provenienti da ogni zona del mondo. Un castello ben formato nei secoli.
La mia vita al castello non fu mai facile, sin da quando nacqui, il popolo mi temeva, da quando pronunciai i miei primi incantesimi. Tutti erano sbigottiti della nascita di uno degli eredi che governava la magia di luce dopo secoli, non sapevano come gestirmi. Soprattutto mio padre, Il Re Maother, un elfo alto quanto robusto. Con crespi capelli argentei e una folta barba ben curata. Mi fu raccontato in seguito, che rinnegava suo figlio. Cioè me. Aveva paura che la mia magia potesse fare del male agli Alti e per questo mi fu proibita di usarla. Ma di nascosto dei miei genitori, di tanto in tanto mi intrufolavo nella biblioteca segreta, rivelatomi una notte da un fascio di luce magica che mi condusse lì. Iniziai a leggere libri di magia, tutte quelle formule magiche mi facevano brillare gli occhi. Leggevo e rileggevo quei manuali alla magia fino a farmi seccare le labbra. Fino a che non mi addormentavo sui libri.
Un giorno però fu scoperto da mia madre, la Regina Etarya, un elfo alta quasi quanto mio padre, ma al contrario di lui, lei era fine di corporatura. Con lunghi capelli color del ghiaccio celeste, gli occhi dello stesso colore e un pallore della pelle che li faceva risaltare. Mi sorprese a dormire nella biblioteca segreta, ero piccolo e pensai: "Quale punizione potrebbero mai darmi?" Ebbene, fecero cementare l'entrata della biblioteca per non farmici più mettere piede... Ma per fortuna avevo ben memorizzato molte delle formule magiche che nascondeva.
Da allora mio padre mi trattò sempre con più severità, soprattutto quando nacque mia sorella. Aveva paura le facessi del male. Ma come poteva pensarlo? Io non ero un mostro. Non sarei mai stato capace di utilizzare la magia per fare del male ai miei fratelli, al mio popolo!
Crescendo però approfittai della magia per fare alcuni scherzetti ai miei fratelli, che ogni volta se la prendevano fin troppo, probabilmente gelosi del mio potere. Ricordo quella volta che tramutai mio fratello in uno scoiattolo, che risate che ci facemmo io e mia sorella. Però il gioco durò poco, mio padre mi ordinò di farlo ritornare normale. Quella volta che mi scoprì mi fece rinchiudere nelle prigioni del castello per una settimana... mangiai e mi dissetai solo con pane e acqua, non mi permisero nemmeno di uscire per lavarmi dal fetore delle celle. Io imparai una lezione quel giorno, l'odio di mio padre verso di me non sarebbe mai sparito, era denso come le nuvole grigie di una tempesta. E questo non potevo accettarlo. Ed è per tale motivo che decisi di scappare dal castello degli Alti, imparare la magia oscura e prendere il possesso del monte degli Orchi. Qui potevo esercitare liberamente la magia finalmente. Allenandomi con costanza ogni giorno, divenni il mago, forse più potente che esisteva!
Da qui però grazie all'incantesimo Speculum Portal, riuscivo a vedere la vita nel castello dopo la mia ascesa al trono degli Orchi. Mia sorella che si allena ogni giorno nell'arte del tiro a distanza, mio fratello che perlustra il castello e i villaggi sottostanti. Mia madre e mio padre discutere sul futuro degli Alti. Un giorno li sentì parlare di me. Mia madre gli chiese: "Ma non ti manca nostro figlio Otharon?" e lui in risposta le disse: "Sì... Era pur sempre mio figlio, anche se un pericolo". Mia madre tacque e si strinse tra le spalle in cerca di conforto, che non le fu mai dato.
"Anche se un pericolo"?! Ma come osano? Non ho mai fatto del male a loro, fino adesso! Iniziai a mandare plutoni di orchi all'attacco, sempre con più costanza, fin quando non decisi di attaccare i villaggi del castello. Per poi far uccidere mio padre. E donare il regno ai Grigi, come gli avevo promesso.
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ELOGARD: Il Ciondolo.
FantasíaUn protagonista, tantissime storie create da un ciondolo magico. Zalea, il creatore di mondi, ha lasciato libero arbitrio alle sue creature, creando così vere esperienze e sentimenti nei loro animi. Tanti racconti in uno solo, che sprigiona la fant...